poesie

IL TUO SORRISO

 

Toglimi il pane, se vuoi,

toglimi l’ aria, ma

non togliermi il tuo sorriso.

 

Non togliermi la rosa,

la lancia che sgrani,

l’acqua che d’ improvviso

scoppia nella tua gioia,

la repentina onda

d’argento che ti nasce.

 

 

 Dura è la mia lotta e torno

con gli occhi stanchi,

a volte, d’ aver visto

la terra che non cambia,

ma entrando il tuo sorriso

sale al cielo cercandomi

ed apre per me tutte

le porte della vita.

 

Amore mio, nell’ ora

più oscura sgrana

il tuo sorriso, e se d’ improvviso

vedi che il mio sangue macchina

le pietre della strada,

ridi, perché il tuo riso

sarà per le mie mani

come una spada fresca.

 

 Vicino al mare, d’autunno,

il tuo riso deve innalzare

la sua cascata di spuma,

e in primavera, amore,

voglio il tuo riso come

il fiore che attendevo,

il fiore azzurro, la rosa

della mia patria sonora.

 

 Riditela della notte,

del giorno, delle strade

contorte dell’isola,

riditela di questo rozzo

ragazzo che ti ama,

ma quando apro gli occhi

e quando li richiudo,

quando i miei passi vanno,

quando tornano i miei passi,

negami il pane, l’aria,

la luce, la primavera,

ma il tuo sorriso mai,

perché io ne morrei.

 

Pablo Neruda

 

 

SCRITTO SULLA SABBIA

Che il bello e l’incantevole
Siano solo un soffio e un brivido,
che il magnifico entusiasmante
amabile non duri:
nube, fiore, bolla di sapone,
fuoco d’artificio e riso di bambino,
sguardo di donna nel vetro di uno specchio,
e tante altre fantastiche cose,
che esse appena scoperte svaniscano,
solo il tempo di un momento
solo un aroma, un respiro di vento,
ahimè lo sappiamo con tristezza.
E ciò che dura e resta fisso
non ci è così intimamente caro:
pietra preziosa con gelido fuoco,
barra d’oro di pesante splendore;
le stelle stesse, innumerabili,
se ne stanno lontane e straniere, non somigliano a noi
– effimeri-, non raggiungono il fondo dell’anima.
No, il bello più profondo e degno dell’amore
pare incline a corrompersi,
è sempre vicino a morire,
e la cosa più bella, le note musicali,
che nel nascere già fuggono e trascorrono,
sono solo soffi, correnti, fughe
circondate d’aliti sommessi di tristezza
perché nemmeno quanto dura un battito del cuore
si lasciano costringere, tenere;
nota dopo nota, appena battuta
già svanisce e se ne va.

Così il nostro cuore è consacrato
con fraterna fedeltà
a tutto ciò che fugge
e scorre,
alla vita,
non a ciò che è saldo e capace di durare.
Presto ci stanca ciò che permane,
rocce di un mondo di stelle e gioielli,
noi anime-bolle-di-vento-e-sapone
sospinte in eterno mutare.
Spose di un tempo, senza durata,
per cui la rugiada su un petalo di rosa,
per cui un battito d’ali d’uccello
il morire di un gioco di nuvole,
scintillio di neve, arcobaleno,
farfalla, già volati via,
per cui lo squillare di una risata,
che nel passare ci sfiora appena,
può voler dire festa o portare dolore.
Amiamo ciò che ci somiglia,
e comprendiamo
ciò che il vento ha scritto
sulla sabbia.

Hermann Hesse

 

Tu mi inquieti, sei davvero così audace?

Sei tu la tempesta che trascina i miei sentimenti più nascosti come spuma dall’onda?;

sei tu che disturbi i miei sogni e dall’inconscio sai estrarre i miei desideri più atavici?

sei tu la fiera indomabile che consente solo un approccio fugace ma intenso, come la sensazione della pioggia esotica quando evapora dall’asfalto caldo e ti assale addosso per tutta la pelle?

Sei tu che mi fai pronunciare queste parole e questi pensieri proibiti?

Mi sento gracile nelle tue mani, mi sento nudo davanti al tuo sguardo, mi sento indifeso davanti alla tua sicurezza.

 

Perchè non dovrebbero essere emaciate le mie guancie e teso il mio volto? La disperazione è nel mio cuore e il mio viso è il viso di chi ha compiuto un lungo viaggio: dal caldo e dal freddo fu riarso. Perchè non dovrei vagare per i pascoli? Il mio amico, il fratello minore che afferrò ed uccise il Toro del cielo e sconfisse Humbaba nella foresta dei cedri, l’amico mio che molto mi era caro e che al mio fianco aveva affrontato perioli, Enkidu, il fratelo che amavo, la fine di tutti i mortali l’ha raggiunto. Seette giorni e sette notti lo piansi, finchè il verme non fu su di lui. A cagione di mio fratello ho paura della morte, a cagione di mio fratello vado ramingo per le lande. Il suo fato incombe su di me. Come pposso tacere, come posso riposare? Egli è polvere e anch’io morrò e sarò disteso nela terra per sempre”

L’epopea di Gilgames
>
> Che cosa apsetti ancora?
>

E parlò una donna e disse: Parlaci del Dolore.
Ed egli disse:
Dolore è il rompersi del guscio che racchiude la vostra intelligenza.
Così come il nocciolo del frutto deve rompersi perché il suo cuore possa esporsi nel sole, così dovete voi conoscere il dolore.
E se voi sapeste tenere il cuore in stato di meraviglia di fronte ai quotidiani miracoli della vita, il dolore vi apparirebbe non meno mirabile della gioia.
E voi accogliereste le stagioni del vostro cuore, così come sempre avete accolto le stagioni che si susseguono sui vostri campi.
E vegliereste sereni durante gli inverni del vostro dolore. Molto del vostro dolore è scelto da voi stessi.
È l’amara pozione con la quale il medico che è dentro di voi guarisce il vostro io malato.
Confidate perciò nel medico e bevete il suo rimedio in silenzio e tranquillità.
Poiché la sua mano, benché grossa e rude, è guidata dalla tenera mano di Chi non è visibile, e la coppa che vi porge, benché vi bruci le labbra, è stata ricavata dalla creta che il Vasaio ha inumidito di lacrime sacre.

 

 

Dobbiamo compiacerci più di coloro i quali ci riprendono che di coloro i quali ci adulano. I primi ci svegliano con il sentimento del dolore; i secondi ci snervano e ci abbattono cercando di piacerci. (plutarco)

Affabilità

Ciò che è necessario per tutti i pubblici impiegati è l’affabilità;

non devono lasciar partire persone malcontente di loro;

devono mostrarsi gentili con tutti quelli che si avvicinano.

Non si può far del bene a tutte l’ore ma si possono sempre dire cose piacevoli.

Voltaire

 

Questo amore
Questo amore
Così violento
Così fragile
Così tenero
Così disperato
Questo amore
Bello come il giorno
E cattivo come il tempo
Quando il tempo è cattivo
Questo amore così vero
Questo amore così bello
Così felice
Così gaio
E così beffardo
Tremante di paura come un bambino al buio
E così sicuro di sé
Come un uomo tranquillo nel cuore della notte
Questo amore che impauriva gli altri
Che li faceva parlare
Che li faceva impallidire
Questo amore spiato
Perché noi lo spiavamo
Perseguitato ferito calpestato ucciso negato dimenticato
Perché noi l’abbiamo perseguitato ferito calpestato
ucciso negato dimenticato
Questo amore tutto intero
Ancora così vivo
E tutto soleggiato
E tuo
E mio
È stato quel che è stato
Questa cosa sempre nuova
E che non è mai cambiata
Vera come una pianta
Tremante come un uccello
Calda e viva come l’estate
Noi possiamo tutti e due
Andare e ritornare
Noi possiamo dimenticare
E quindi riaddormentarci
Risvegliarci soffrire invecchiare
Addormentarci ancora
Sognare la morte
Svegliarci sorridere e ridere
E ringiovanire
Il nostro amore è là
Testardo come un asino
Vivo come il desiderio
Crudele come la memoria
Sciocco come i rimpianti
Tenero come il ricordo
Freddo come il marmo
Bello come il giorno
Fragile come un bambino
Ci guarda sorridendo
E ci parla senza dir nulla
E io tremante l’ascolto
E grido
Grido per te
Grido per me
Ti supplico
Per te per me per tutti coloro che si amano
E che si sono amati
Sì io gli grido
Per te per me e per tutti gli altri
Che non conosco
Fermati là
Là dove sei
Là dove sei stato altre volte
Fermati
Non muoverti
Non andartene
Noi che siamo amati
Noi ti abbiamo dimenticato
Tu non dimenticarci
Non avevamo che te sulla terra
Non lasciarci diventare gelidi
Anche se molto lontano sempre
E non importa dove
Dacci un segno di vita
Molto più tardi ai margini di un bosco
Nella foresta della memoria
Alzati subito
Tendici la mano
E salvaci.

(Jacques Prevert )

Teutoburgo

Battaglia della Foresta di Teutoburgo

[[Guerre romano-germaniche]]

data: 9 – 11 settembre anno 9 d.c.

Ad urbe condita 762 della fondazione di Roma

Decisiva vittoria dei Germani, fine dell’espansione romana oltre il Reno

 

Impero romano
comandante[[Publio Quintilio Varo]]
Effettivi 3 legioni romane, 3 ali e 6 coorti ausiliarie, probabilmente 24.000 uomini circa
Perdite circa 23.000 uomini
|Tribù germaniche
Comandante Arminio
Effettivi sconosciuto, probabilmente 18.000Cheruschi, Catti e Marsi
|perdite=sconosciute, forse 7.000

 

La ”’battaglia della Foresta di Teutoburgo”’ si svolse nel 9 d.C. tra l’esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, capo dei Cherusci.

Fu una delle più gravi sconfitte subite dai romani: tre intere legioni: la XVII, la XVIII e la XIX furono annientate. La clades variana diede inizio ad una guerra durata sette anni, più che conquista per rappresaglia, in quanto alla fine delle campagne i romani rinunciarono a ulteriori tentativi di conquista della Germania.

Il Reno si consolidò così come definitivo Limes ovvero confine nord-orientale dell’Impero romano per i successivi 400 anni.

==Introduzione==

Dopo che Tiberio, allora figlio adottivo dell’imperatore Augusto, aveva domato gli ultimi focolai di una rivolta degli inizi del I secolo, la Germania appariva ai romani come una vera e propria provincia.

A Roma si pensava che ormai fosse arrivato il momento di introdurre nella regione il diritto e le istituzione romane. L’imperatore Augusto decise così di affidare ad un burocrate, più che ad un generale, il governo della nuova provincia. Scelse, dunque, il governatore della Syria (provincia romana), ”’Publio Quintilio Varo”’ ( Cremona 47-46 a.C. – 9 d.C.). Egli era soprattutto un personaggio abbiente (eques?) che aveva percorso il solito “excursus honorario” dei politici romani. Fu Console nel 13 a.C., proconsole d’Africa (7 a.C.-6 a.C.) e poi legato in Siria. Qui stroncò con risolutezza la ribellione ebraica che seguì la morte di Erode I il Grande([[4 a.C.]]).

La sua carriera fu facilitata dal legame personale con Augusto. Varo, durante la sua carriera, era entrato in stretto contatto con Tiberio: nel 13 a.C. era stato suo collega nel consolato ed era anche lui genero di Agrippa (come lo era anche Tiberio attraverso il suo primo matrimonio con la figlia di

Agrippa, Vipsania), come si è potuto appurare recentemente grazie a un ritrovamento papiraceo.

Il Princeps riteneva che un personaggio noto per altri pregi ma non certamente per l’abilità bellica, potesse far cambiare le usanze secolari dei germani; i quali non avevano apprezzato i modi rudi dei militari romani.

Varo nel 7 d.C. ricevette l’incarico di amministrare i territori della Germania ma ignorò le indicazioni dell’Imperatore. Egli, pare che soleva rivolgersi ai Germani come a degli schiavi, convinto che essi si fossero ormai arresi alla volontà romana o forse la sua politica eccessivamente avida e persecutoria nei confronti delle popolazioni locali, come spesso accadeva nei governatori che vedano l’incarico come una fonte di guadagno e di finanziamento per un ulteriore carriera politica, Velleio dichiara che era povero quando fu nominato governatore della Syria e ne uscì ricchissimo. Tale avidità provocò malumore e la rivolta capeggiata da Arminio, ex ufficiale germanico dell’armata romana. Egli è indolente fisicamente, si lascia confondere dai Germani nelle questioni amministrative, come se si trovasse in una situazione di pace diffusa, gli manca dunque la virtù della vigilantia ed anche come generale la situazione si rivela superiore alle sue forze.

 

Questa era la situazione prima della disfatta che annientò le tre legioni che erano affidate al comando di Publio Quintilio Varo.

Era settembre e Varo, finita la stagione di guerra (che per i romani iniziava a marzo e finiva ad ottobre), già si muoveva verso i campi invernali presso il Reno. Al comando della XVII, XVIII e XIX Legioni, reparti ausiliari e numerosi civili, si spinse verso sud ovest, affidandosi alle indicazioni degli indigeni poiché non conosceva il luogo.

Quello che Varo non sapeva è che le popolazioni locali, guidate da Arminio, principe dei Cherusci, avevano organizzato un’imboscata. Il percorso sul quale furono dirette le legioni romane non era la via che avrebbero dovuto prendere per dirigersi velocemente nei campi invernali.

Sono state formulate diverse ipotesi sul perché i Romani si siano diretti a nord ovest prima di attraversare la Porta Vestfalica, per raggiungere presidi e percorrere strade più sicure.

L’ipotesi più plausibile è che Varo fosse stato informato di una rivolta scoppiata nei pressi del massiccio calcareo di Kalkriese e che, quindi, si fosse diretto lì velocemente per contrastarla prima che potesse diffondersi.

La decisione di Varo di attaccare subito quello che ritenne un principio di rivolta non era tuttavia insensata, in quanto un mancato intervento e il ritiro nei campi invernali sarebbe stato percepito da tutte le tribù come un fattore di debolezza, spingendo anche gli indecisi ad unirsi alla ribellione. Varo fece quello che ci si aspettava da ogni comandante romano in caso di disordini e che, per altro, aveva fatto anche quando era governatore della Siria per stroncare una rivolta giudaica, scegliendo di intervenire subito, anche con poche truppe, male rifornite e organizzate.

==La battaglia==

===Primo giorno===

Il 9 settembre i Romani subirono i primi attacchi che riguardarono solo l’avanguardia e furono di piccola entità. Probabilmente Varo non dette troppa importanza a queste avvisaglie ritenendole scaramucce. Le tribù in rivolta sotto gli ordini di Arminio erano diverse, Cherusci, Bructeri o Bructi, Catti, Marsi ecc., ma Varo non sapeva né contro chi stesse marciando né che il capo nemico fosse al suo fianco durante la marcia: Arminio, infatti, era ritenuto dai Romani un importante alleato e per questo gli era stato fatto dono della cittadinanza romana e del titolo di “Cavaliere”.

===Secondo giorno===

Il secondo giorno fu peggiore del primo perché le perdite subite furono maggiori. Gli uomini di [[Arminio]] conoscevano bene il territorio e in piccoli gruppi armati alla leggera, si lanciavano in rapide incursioni fuggendo prima che la macchina militare romana potesse disporsi in formazione da combattimento, impedita com’era dalla mancanza di spazio in cui manovrare. Infatti, non essendoci strade, i Romani dovettero attraversare una fitta foresta tra un massiccio calcareo e una palude.

===Terzo giorno===

I Romani arrivarono nel luogo pensato e di conseguenza predisposto da [[Arminio]] per l’attacco principale. Era il punto in cui la grande palude si avvicinava di più alla montagna calcarea e dove quindi il passo che portava al varco era ristrettissimo (120-80 metri). Qui i [[Germani]] avevano innalzato un terrapieno lungo oltre 500 metri e largo 4-5 metri parallelo alla conca lungo il bordo del bosco, vera e propria muraglia senza fossa antistante con strette aperture per l’uscita e l’entrata dei loro combattenti. Da qui potevano attaccare il fianco sinistro delle truppe romane per tutta la loro lunghezza. Nonostante l’idea di [[Varo]] di dividere il proprio esercito in piccoli gruppi armati con molti “pila” le perdite furono pesantissime e si scatenò il caos nello schieramento romano.

La cavalleria, guidata da C. Numonio Vala invece di proteggere il seguito delle truppe si staccò dal nucleo e cercò la salvezza fuggendo verso nord-ovest attraverso la palude ma anch’essa venne coinvolta in ulteriori combattimenti (per circa 4 chilometri secondo i recenti scavi) ed è probabile che anche questi soldati siano stati eliminati. A questo punto quasi tutti i soldati romani abbandonarono gli scontri preferendo uccidersi o fuggire (per venire catturati o uccisi dai Germani), Varo stesso, ferito nel combattimento morì o si dette la morte con la propria spada.

Alla fine a resistere furono solo un piccolo gruppo di veterani che continuarono a combattere dopo aver costruito un campo di fortuna su di una altura; nella serata però anche quest’ultima fiaccola di resistenza venne eliminata dai Germani che assalendo il campo da tutte le direzioni, lo presero facilmente.

Gran parte dei superstiti vennero sacrificati alle divinità germaniche e i restanti vennero liberati, o scambiati con prigionieri germanici o riscattati se è vero che durante le successive spedizioni del 16-17 (sei anni dopo la disfatta), Germanico si fece ricondurre sul campo di Kalkriese avvalendosi proprio dell’aiuto dei veterani della battaglia, gli unici che ne potevano indicare il luogo.

 

==Conclusione==

La ”clades variana” fu la più grande disfatta subita dall'[[Impero Romano]] (ma non in assoluto la più grande della storia romana) e mise fine ai propositi augustei di espansione verso il nord est dell’Europa. Dopo questa sfortunata battaglia Svetonio ci racconta nel suo “Vita dei Cesari” che Augusto non si fosse tagliato per mesi barba e capelli in segno di lutto e si lamentasse con la celebre frase: “Varo rendimi le mie legioni” (”Vare legiones redde”!).

Certamente l’imperatore era amareggiato della disfatta e soprattutto della perdita di 30.000 soldati. Temendo un attacco dei Germani, infatti, cercò di ricostituire velocemente le tre legioni perse, addirittura, si dice, arruolando liberti, criminali e persino persone che non avevano la cittadinanza romana.

Augusto infine consigliò il suo successore di non intraprendere altre spedizioni fuori dai confini, ma Tiberio, una volta Imperatore, inviò Germanico a combattere in quelle zone forse anche per allontanare un personaggio scomodo come il figlio di Druso.

Sembra che Germanico abbia ritrovato una o due delle tre insegne delle legioni perse nella battaglia. La terza,invece, è sparita del tutto insieme al suo portatore, nella grande palude a nord del campo di battaglia.

L’aquilifer che la portava preferì morire portandosi dietro l’insegna piuttosto che lasciarla nelle mani dei Germani.

L’aquilifero era il soldato incaricato di portare in battaglia l’Aquila delle legioni romane, che tutti i soldati dovevano proteggere anche a costo della vita. Il vessillo, sormontato appunto da un’aquila, era quanto di più prezioso aveva la Legione e la sua perdita era considerata un’immane disgrazia. Sono numerosi i casi di aquiliferi che, gettandosi contro il nemico portando l’insegna senza abbandonarla, hanno trascinato con sé i compagni, capovolgendo una situazione critica: un esempio è dato dal primo sbarco di Cesare in Britannia, quando le sue truppe, intimorite dai nemici, arrivarono a terra per proteggere un aquilifero che era sbarcato avanzando verso i nemici.

Altre fonti addebitano il ritrovamento della terza insegna ad una successiva incursione dell’armata al tempo dell’Imperatore Claudio.

Estratto da “http://it.wikipedia.org/wiki/Aquilifer

 

===Conseguenze===

 

La battaglia segna di fatto la fine dell’espansionismo romano in [[Germania]]: il ”lamento” di [[Augusto (imperatore romano)|Augusto]], di cui si parlava poc’anzi, può essere associato, infatti, non solo alla sconfitta militare, di per se grave, ma anche alla consapevolezza del vecchio imperatore di non poter stabilizzare i confini nord-orientali. L’espansione romana si arrestò, infatti, sulle rive del [[Reno]], mentre [[Augusto (imperatore romano)|Augusto]] avrebbe preferito le sponde dell'[[fiume Elba|Elba]], che, come confine, si mostrava strategicamente molto più sicuro. Soprattutto perché non avrebbe esposto l’impero ad un pericolo perenne di divisione tra Est e Ovest, soprattutto per la vicinanza degli avamposti barbari alla “porta” romana che collegava oriente e occidente: [[Aquileia]].

Quasi tutte le postazioni romane ad est del Reno, ad eccezione di Alisio, diventano indifendibili e sono abbandonate e si ritorna in pratica alle posizioni antecedenti l’offensiva del 12 a.C. Il Reno grazie alle 2 legioni di rinforzo [stanziate a Moguntiaco (Magonza)] portate a Castra Vetera dal legato Nonio Asprenate non viene attraversato dai Germani, i quali per sempre dall’influenza della civiltà romana.
– Augusto che a Roma grida “Varo rendimi le mie legioni” dapprima è in difficoltà a ripristinare la guarnigione del Reno, poi manda Tiberio con 8 legioni provenienti: 2 dalla Rezia, 2 dalla spagna, 2 dall’I’lirico e le 2 di Asprenate di stanza a Magonza e portate a Xanten (Castra Vetera). Roma non troverà più la possibilità di rinnovare il progetto di una linea di frontiera Elba-Danubio.
La colonizzazione della [[Germania]] avrebbe aperto scenari del tutto differenti per la storia di tutta la latinità. Infatti le popolazioni barbare che indebolirono negli ultimi secoli di vita dell’Impero l’esercito romano provenivano dalle regioni tra l’Elba ed il Reno. La possibilità di una loro civilizzazione, come era avvenuto per Galli, Bretoni e Iberi, avrebbe sicuramente aumentato la forza e la quantità del potere militare, attenuando le lotte intestine e l’impatto di popoli come gli Unni che rifornirono le schiere con quelli che un tempo erano “alleati di Roma” verso la quale invece nutrivano odio e  brama di appropriarsi delle sue ricchezze.

 

Analizzando il corso degli eventi nella storia si può osservare che tutti gli Imperi tedeschi dagli Ottoni a Hitler si sono fondati sull’esaltazione dei valori propri della “germanicità” nati nelle tribù barbariche e maturati nel Medioevo che con la “latinizzazione” delle genti conquistate dall’espansione romana non sarebbero potuti esistere.

 

=bibliografia ==

==Fonti antiche==

La seguente è una lista di tutti i riferimenti alla battaglia presenti nei testi dell’antichità. Sebbene il resoconto fatto nella ”Storia Romana” sia il più dettagliato, il fatto che l’autore [[Dione Cassio]] fosse vissuto almeno due secoli dopo gli eventi e che avesse fornito dettagli cui nessun autore precedente aveva fatto menzione, rendono il suo resoconto sospetto dal punto di vista storico, che assume piuttosto gli aspetti di una rievocazione letteraria.

 

* [[Publio Ovidio Nasone|Ovidio]], ”[[Tristia]]”, versi poetici scritti nel [[10]] ed [[11]]

* [[Marco Manilio]], ”Astronomica”, poema scritto agli inizi del [[I secolo]]

* [[Strabone]], ”Geographia” (Libro 7, Sezione 1,4),storia di carattere geografico scitta probabilmente nel [[18]]

* [[Velleio Patercolo]], ”Storia Romana” (Libro 2, Capitoli 117-120), storia, scritta nel [[30]]

* [[Tacito]], ”[[Annales (Tacito)|Annali]]” (Libro 1), storia, scritta nel [[109]]

* [[Gaio Svetonio Tranquillo|Svetonio]], ”Vite dei dodici Cesari”, storia, scritta nel [[121]]

* [[Floro]], ”Epitome de T. Livio Bellorum omnium annorum DCC Libri duo” (Sezione 2,30), storia/panegirico scritto agli inizi del [[II secolo]]

* [[Dione Cassio]], ”Storia Romana” (Libro 56, Capitoli 18-24), storia, scritta nella prima metà del [[III secolo]]

 

 

==Fonti moderne==

*Peter Wells, “La battaglia che fermò l’impero romano: la disfatta di Q.Varo nella Selva di Teutoburgo”, il Saggiatore Collana Nuovi Saggi Pagine 256 € 17,00 – Milano 2004.

M.Bocchiola-M.Sartori “TEUTOBURGO 9 D.C.. La grande disfatta delle legioni di Augusto” Ermanno Alberelli editore, pagine 324, € 22,00

 

 

===Fonti storiche=====

* Tacito, (”Annali” II, 88): (aveva ricavato) presso gli storici ed i senatori contemporanei agli eventi che in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno atto all’assassinio.

Gli fu risposto, invece, che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte ma apertamente e con le armi.

Tacito continua (descrivendo che) Arminio, aspirando al regno mentre i romani si stavano ritirando a seguito della cacciata di Maroboduo (Marbod), ebbe a suo sfavore l’amore per la libertà del suo popolo e assalito con le armi mentre combatteva con esito incerto, cadde tradito dai suoi collaboratori. Indubbiamente fu il liberatore della Germania, uno che ingaggiò guerra non ad un popolo romano ai suoi inizi, come altri re e comandanti, ma ad un Impero nel suo massimo splendore. Ebbe fortuna alterna in battaglia ma non fu vinto in guerra. Visse trentasette anni e per dodici fu potente. Tuttora è cantato nelle saghe dei barbari, ignorato nelle storie dei greci che ammirano solo le proprie imprese, da noi romani non è celebrato ancora come si dovrebbe; Noi che mentre esaltiamo l’antichità non badiamo ai fatti recenti.

**Tacito (“Annali”, 60) addebita a Lucio Stertinio, inviato in missione da Germanico con una colonna armata alla leggera a disperdere i Brutteri, intenti a bruciare i loro paesi e, nel corso della strage e del saccheggio, trovò l’aquila della XIX diciannovesima legione. Lo stesso Tacito racconta che il ritrovamento avvenne nei pressi di Teutoburgo e ciò spinse Germanico a recarvisi per rendere onore ai caduti.

* (Annali di Tacito 61). Sorse allora in Cesare Germanico il desiderio di rendere gli estremi onori ai soldati e al loro comandante, tra la generale commiserazione dell’esercito lì presente al pensiero dei parenti, degli amici e ancora dei casi della guerra e del destino umano. (Igitur cupido Caesarem invadit solvendi suprema militibus ducique, permoto ad miserationem omni qui aderat exercitu ob propinquos, amicos, denique ob casus bellorum et sortem hominum). Mandato in avanscoperta Cecina a esplorare i recessi della foresta e a costruire ponti e dighe sugli acquitrini delle paludi e sui terreni insidiosi, avanzavano in quei luoghi mesti, deprimenti alla vista e al ricordo. Il primo campo di Varo denotava, per l’ampiezza del recinto e le dimensioni del quartier generale, il lavoro di tre legioni; poi, dal trinceramento semidistrutto, dalla fossa non profonda, si arguiva che là si erano attestati i resti ormai ridotti allo stremo. In mezzo alla pianura biancheggiavano le ossa, sparse o ammucchiate, a seconda della fuga o della resistenza opposta. Accanto, frammenti di armi e carcasse di cavalli e teschi confitti sui tronchi degli alberi, (medio campi albentia ossa, ut fugerant, ut restiterant, disiecta vel aggerata. adiacebant fragmina telorum equorumque artus, simul truncis arborum antefixa ora). Nei boschi vicini, are barbariche, sulle quali avevano sacrificato i tribuni e i centurioni di grado più elevato. I superstiti di quella disfatta, sfuggiti alla battaglia o alla prigionia, raccontavano che qui erano caduti i legati e là strappate via le aquile, e dove Varo avesse subito la prima ferita e dove il poveretto, di sua mano, avesse trovato la morte; da quale rialzo avesse parlato Arminio, quanti patiboli e quali fosse avessero preparato per i prigionieri e come, nella sua superbia, Arminio avesse schernito le insegne e le aquile.

* (Annali di tacito 62) Dunque sei anni dopo quella strage, c’era là un esercito romano a seppellire le ossa di tre legioni, senza che alcuno sapesse se ricopriva di terra i resti di un estraneo o di uno dei suoi, ma tutti li sentivano come congiunti, come consanguinei, e cresceva in loro, mesti e furenti a un tempo, la rabbia contro il nemico. La prima zolla del tumulo in costruzione la pose Cesare Germanico: un nobile gesto d’onore verso i morti e di partecipazione al dolore dei presenti. (primum extruendo tumulo caespitem Caesar posuit, gratissimo munere in defunctos et praesentibus doloris socius). Ciò non trovò l’approvazione di Tiberio, sia che interpretasse al peggio ogni atto di Germanico, sia nell’ipotesi che, davanti allo spettacolo di quel massacro e dei corpi insepolti, ne risentisse la combattività dell’esercito e crescesse la paura del nemico; inoltre riteneva che un comandante, nel suo ruolo di augure e rivestito delle più antiche cariche sacerdotali, non avrebbe dovuto officiare riti funebri.

 

Velleio Patercolo inizia così a raccontare la claves variana “aL’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza di guerra, si trovò intrappolato, vittima: dell’indolenza del suo generale,

della perfidia del nemico,

dell’iniquità della sorte

e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita….

 

 

==Curiosità==

* Dopo questa sfortunata battaglia Svetonio ci racconta nel suo “Vita dei Cesari” che Augusto non si taglio per mesi barba e capelli ed andava in giro per la casa sbattendo la testa al muro e dicendo  (Vare legiones redde!). Inoltre sembra che Augusto temendo un invasione dei germani fece di tutto per riavere subito altre 3 legioni, si dice che arruolò liberti, criminali e persino persone che non avevano la cittadinanza romana. Augusto infine consiglio il suo successore di non intraprendere altre spedizioni fuori  dai confini ma si sa che Tiberio, almeno nei primi anni, non rispettò questo consiglio e mandò Germanico.

* La claves variana fu percepita come un’onta per i romani e gli autori incolpano Varo per la sua negligenza, Arminio per la perfidia, l’ambiente selvaggio e le pessime condizioni atmosferiche; mai una parola sui guerrieri locali che sopraffecero le legioni di un impero. Augusto attribuì la sconfitta addirittura ad un’inadeguata cerimonia rituale, che impedì ai romani di guadagnarsi il favore degli dèi. L’imperatore non riusciva a credere che il suo esercito fosse stato schiacciato dai barbari del nord.

*Una volta che i romani si furono ritirati da vincitori, scoppiò la guerra tra Arminio e Marbod, l’altro potente capo germanico dell’epoca, monarca dei marcomanni (che erano stanziati nell’odierna Boemia, dopo essere stati battuti.  Marbod aveva stretto una tregua con Augusto e sembra che non accettò l’alleanza con Arminio prima della claves di Varo. Arminio gli inviò la testa di Varo e questi la mandò ad Augusto che perse ogni speranza di trovare vivo il suo protetto. Nel 19 d.c. Arminio fu assassinato dai suoi capitani, che temevano il suo crescente potere

*Il fratello di Arminio, Ezio, militava nell’esercito romano e rimase, anche successivamente la battaglia di Teutoburgo, un leale e fedele ufficiale delle legioni.

*Sembra che Germanico, circa sei anno dopo la sconfitta, abbia ritrovato solo due delle tre insegne delle legioni perse nella battaglia, mentre pare che la terza sia sparita, insieme al suo portatore, nella grande palude a nord del campo di battaglia. Pare che l’aquilifer che la portava preferì morire trascinando dietro l’insegna piuttosto che lasciarla nelle mani dei Germani(vedi Tacito annali 60 e 61). Il ritrovamento della terza insegna, invece, sembra avvenuta molto tempo dopo dall’armata romana al tempo dell’Imperatore Claudio

* L’aquilifero era il soldato incaricato di portare in battaglia l’aquila delle legioni romane, che tutti i soldati dovevano proteggere anche a costo della vita. L’aquila era, infatti, quanto di più prezioso aveva la legione e la sua perdita era considerata un’immane disgrazia.

Sono numerosi i casi di aquiliferi che, gettandosi contro il nemico portando l’insegna, hanno trascinato con sé i compagni, capovolgendo una situazione critica: un esempio è dato dal primo sbarco di Cesare in Britannia, quando le sue truppe, intimorite dai nemici, arrivarono a terra per proteggere un aquilifero che era sbarcato avanzando verso i nemici.

*Il femminile di Arminio, ”Arminia”, ha dato il nome alla squadra [[Germania|tedesca]] dell'[[Arminia Bielefeld]].

*La storia di Arminio e delle sue vittorie potrebbero aver fornito la base per la figura [[mitologia|mitologica]] di [[Sigfrido]] dei [[Nibelunghi

Le spoglie di Varo dunque, come scrive Velleio, furono restituite ai suoi e venne data loro regolare sepoltura. Non fu un caso isolato, infatti, vi è un testo parallelo che tratta di

una sorte simile: si tratta della lapide sepolcrale di Celio nel Rheinisches Landesmuseum di

Bonn (e di cui potete vedere un calco in questo stesso Dipartimento, nell’aula intitolata

appunto al legionario romano).

M(arco) CAELIO T(iti) F(ilio) LEM(onia) BON(onia) (I) O(rdini) LEG(ionis)

XIIX ANN(orum) LIII CECIDIT BELLO VARIANO OSSA INFERRE LICEBIT

P(ublius) CAELIUS T(iti) F(ilius) LEM(onia) FRATER FECIT

Celio veniva da Bologna ed è evidente che egli trovò nei boschi della Germania una morte che non si aspettava. Già questi semplici fatti rendono questa lapide, testimone di una grave sconfitta romana, un documento notevole. Ma Velleio ci fornisce la trama di fondo dell’iscrizione, illustrando, dal punto di vista dei romani contemporanei, la catastrofe in tutte le sue proporzioni e indicandone la responsabilità. Per Velleio è chiaro chi è l’unico colpevole: Varo; ma anche il redattore dell’iscrizione di Celio condivide questa prospettiva giacché la iunctura bellum Varianumè singolare: è stata una guerra che era affare del solo Varo a causare la morte dell’ufficiale romano.

 

========La Germania============

** Le popolazioni germaniche avevano più volte, nel [[38 a.C.|38]] gli [[Ubii]], nel [[29 a.C.|29]] i [[Suebi]] e nel [[17 a.C.|17]] i [[Sigambri]], tentato di passare il [[Reno]]. Dopo la morte di [[Marco Vipsanio Agrippa|Agrippa]], il comando delle operazioni fu diviso tra i due figliastri dell’Imperatore: [[Tiberio Claudio Nerone|Tiberio]] e [[Druso maggiore|Druso]]. Toccò a quest’ultimo il gravoso compito di operare in Germania.

**Nel [[12 a.C.]] cominciò la prima campagna germanica, respingendo prima una nuova invasione di [[Usipeti]], [[Tencteri]] e [[Sigambri]], concludendosi con una spedizione navale nelle terra di [[Frisoni|Frisi]] e [[Cauci]].

**Nell’[[11 a.C.]] Druso operò più a sud, battendo prima le popolazioni limitrofe ai confini imperiali, come [[Usipeti]] e [[Sigambri]], che si trovavano di fronte a [[Xanten|Vetara]] (l’odierna Xanten), poi percorse il fiume [[Lippe]], costruendovi alcune fortezze tra il [[Reno]] ed il fiume [[Weser]] (tra cui la famosa Aliso), e battendo le popolazioni germaniche di [[Marsi]] e [[Cherusci]].

**Nel [[10 a.C.]] scese ancora più a sud, e dalla nuova fortezza legionaria di [[Magonza|Mogontiacum]] (l’odierna Magonza), combattè le popolazioni di [[Catti]], [[Tencteri]] e [[Mattiaci]].

**Nel [[9 a.C.]] costrinse alla resa prima i [[Marcomanni]] (che in seguito a questi avvenimenti decisero di migrare in [[Boemia]]), poi la potente tribù dei [[Catti]], infine i [[Cherusci]], compiendo una marcia fino a raggiungere il [[fiume Elba]], Druso, però, morì poco dopo a causa di una caduta da cavallo.

**Nei due anni successivi (8-7 a.C.), il fratello Tiberio, accorso al suo cappezzale dall'[[Illirico]], riuscì a consolidare, attraverso una serie di campagne militari ed azioni diplomatiche, l’occupazione romana fino al fiume [[Weser]].

**Nuove azioni furono intraprese in quest’area negli anni successivi (dal [[6 a.C.]] al [[3]] d.C., dopo che Tiberio si era ritirato in esilio volontario), da altri generali di Augusto come [[Lucio Domizio Enobarbo]] o [[Marco Vinicio]], ma senza ulteriori nuovi risultati.

**Fu  necessario il ritorno di [[Tiberio Claudio Nerone|Tiberio]], il quale tra il [[4]] ed il [[6]] d.C. continuò l’opera lasciata in sospeso un decennio prima, ritenendo ormai maturi i tempi per mutare l’assetto dei nuovi territori germanici appena conquistati, in nuova provincia di Roma. Occupò, pertanto, in modo permanente, con nuove azioni militari, tutte le terre comprese tra i fiumi [[Reno]] ed Elba.

**L’ultimo atto necessario fu quello di occupare la [[Boemia]] dei [[Marcomanni]] di [[Maroboduo]], al fine di compeltare il progetto di annessione delle terre tra [[Reno]] ed Elba, ma una grande rivolta (vedi sopra) in [[Dalmazia]] e [[Pannonia]], fermò l’avanzata di Tiberio in [[Moravia (Repubblica Ceca)|Moravia]] (proveniente da [[Carnuntum]]) e del suo legato [[Lucio Senzio Saturnino]] lungo il fiume [[Meno]] (proveniente dal forte legionario di [[Markbreit]]), a pochi giorni dal “cuore del regno” di Maroboduo. La campagna, progettata come una “manovra a tenaglia”, costituiva un’operazione combinata degli eserciti di Germania (2-3 legioni), Rezia (2 legioni) ed Illirico (4 legioni), che Tiberio fu costretto a rimandare ([[6]] d.C.).

**Tutti i territori conquistati in questo ventennio furono compromessi quando nel 7 d.C. Augusto inviava in Germania [[Publio Quintilio Varo]], sprovvisto di doti diplomatiche e militari, oltreché ignaro delle genti e dei luoghi. Nel 9 d.C. un esercito di 20.000 uomini composto dalle legioni XVII, XVIII e XIX veniva massacrato nella battaglia della foresta di Teutoburgo da Arminio, cittadino romano di origini germaniche. Fortuna volle che Maroboduo non si alleasse ad Arminio, e che i Germani riuniti si fermassero dinanzi al Reno, dove erano rimaste solo 2 o 3 legioni a guardia dell’intera provincia di Gallia. Tutta la zona tra il Reno e l’Elba era andata definitivamente perduta e neppure le azioni intraprese da Tiberio negli anni [[11]] e [[12]] d.C., poterono ripristinare quanto era stato così faticosamente conquistato in 20 anni di campagne militari precedenti.

==Biografia==

”’Arminio”’ (anche ”’Hermann”’ ed ”’Armin”’, [[17 a.C.|17]]/[[16 a.C.]] – [[21|21 d.C.]]) fu un [[Re germanico|capo]] della [[tribù]] [[germani]]ca dei [[cherusci]] che sconfisse le [[legione romana|legioni romane]] di [[Varo]] nella [[battaglia di Teutoburgo]]. In seguito venne sconfitto da [[Giulio Cesario Claudiano Germanico]]<ref>[[Tacito]], ”[[Annali (Tacito)|Annali]]” II, 22; [[Svetonio]], ”[[Vite dei dodici Cesari]]”, ”Vita di Caligola” 1,4</ref>. Il [[nome]] di Arminio è una variante [[lingua latina|latinizzata]] di quello [[lingue germaniche|germanico]] ”[[Irmin]]”, che significa “”Grande”” (confronta [[Herminones]]). Il nome Hermann (cioè “”uomo dell'[[esercito]]”” o “”guerriero””) fu utilizzato nel mondo germanico come equivalente di Arminio al tempo della [[Riforma]] di [[Martin Lutero]], che voleva farne un simbolo della lotta dei popoli germanici contro [[Roma antica|Roma]].

 

 

 

Arminio, nato nel 17 o nel 16 a.C., era figlio del capo cherusco [[Segimero]]. Servì nell'[[esercito romano]]: nelle [[fonte testuale|fonti]] [[storiografia latina|storiografiche]] [[lingua latina|latine]] è presentato come un luogotentente che collaborò alle operazioni militari dei romani in [[Pannonia]], guidando un distaccamento di [[truppe ausiliarie]] cherusche. Ottenuta anche la [[cittadinanza romana]], attorno al [[7]]/[[8]] d.C., Arminio tornò nella [[Germania]] settentrionale, dove i romani avevano conquistato i territori a [[ovest]] del [[fiume]] [[Reno]] e ora miravano a espandere il loro dominio a [[est]] dell'[[Fiume Elba|Elba]] sotto la guida del [[proconsole|governatore]] [[Publio Quintilio Varo]]. Arminio iniziò subito a complottare e a unire sotto la sua guida diverse [[tribù]] di [[germani]] per impedire ai romani di realizzare i loro progetti.

 

Nel [[9]], a capo di una coalizione formata da cherusci, [[marsi]], [[catti]] e [[brutteri]],  il 25enne Arminio annientò l'[[esercito]] di Varo (circa 20.000 uomini) nella [[battaglia di Teutoburgo]] (forse nei pressi della [[collina]] di [[Kalkriese]], circa 20 [[chilometro|chilometri]] a [[nord]]-[[est]] di [[Osnabrück]]. Varo si suicidò e i romani non tentarono più di conquistare le terre al di là del Reno, che segnò per [[secolo|secoli]] il [[limes romano|confine]] tra l'[[Impero romano|Impero]] e i [[barbari]]. Dopo questa [[vittoria]], Arminio tentò inutilmente di creare un’alleanza permanente dei popoli germanici con cui far fronte all’inevitabile vendetta romana.

 

Nel [[13]] e nel [[15]], le forze romane , guidate da Germanico, fecero raid e devastarono i territori germanici, infliggendo sconfitte e umiliazioni ad Arminio e alle tribù.

Nel [[16]], Germanico sconfisse pesantemente Arminio nella [[battaglia del fiume Weser]] (combattuta a Idistaviso). Il capo cherusco venne battuto anche in seguito, nel corso di altre spedizioni punitive organizzate da Germanico. Durante queste operazioni, i romani recuperarono le insegne militari di due delle tre legioni che erano state massacrate a Teutoburgo. Quelle della terza furono recuperate in seguito, al tempo dell'[[imperatori romani|imperatore]] [[Claudio (imperatore romano)|Claudio]]<ref>[[Dione Cassio]], ”[[Storia romana (Dione Cassio)|Storia romana]]”, LX, 8.</ref>.

Infatti, come molti altri capi germanici del tempo, per un certo periodo Armi­nio aveva cercato di trovare una propria affermazione da un lato attraverso continui scontri con altre popolazioni germaniche, dall’altro alleandosi tem­poraneamente con l’esercito romano. Per esempio egli partecipò con i suoi uomini alla spedizione contro i Marcomanni in Pannonia, avviata da Tiberio nel 6 d.C., e pochi anni dopo divenne addirittura uno dei più stretti collabo­ratori di Varo. Come spesso accadeva, però, le alleanze tra esercito romano e contingenti germanici potevano rompersi improvvisamente per le ragioni più varie. Forse Arminio, pensando di trarre direttamente un vantaggio personale sconfiggendo i Marcomanni, decise di «giocare in proprio» e sconfisse il suo ex-grande alleato, Varo, approfittando di una sollevazione di truppe scontente per il mancato pagamento del «soldo». Ma, al di là delle effettive ragioni che spinsero Arminio ad abbandonare Varo, è importante comprendere come già dal I secolo d.C. nelle aree di frontiera i rapporti tra Germani e Romani erano caratterizzati sia da una endemica conflittualità, sia da continue alleanze che portarono a una consistente presenza di guerrieri germanici all’interno dell’esercito romano. Non deve stupire, pertanto, se un contingente romano che molti anni dopo la battaglia di Teutoburgo, nel 377, scese in battaglia contro i Visigoti, prima di avviare il combattimento innalzò un impressionante barritus, e cioè il tipico grido di guerra dei Germani.

Una delle forze principali dell’Impero romano fu, infatti,

=======cosa accade======
– Approvazione a Roma della lex Papia Poppaea proposta ai comitia tributa dai consoli M. Papio Mutilo e Caio Poppeo Sabino. Cerca di porre un rimedio stabilendo vantaggi e svantaggi patrimoniali per i celibes e gli orbi, e vantaggi ed onori ai coniugati che avessero figli. Impone:
1) obbligo del matrimonio agli uomini tra 25 e 60 anni e alle donne tra 25 e 50 anni;
2) in caso di divorzio la donna ha una vacatio di 18 mesi;
3) in caso di morte del marito la donna ha una vacatio di 2 anni.
– Augusto ha 71 anni e d’ora in poi non lascerà più la capitale.
– Il poeta Ovidio viene esiliato a Tomi sul Ponto Eusino, nel paese dei barbari Geti.
– Muore Aulo Licinio Nerva Silano, console del 7 d.C.

Velleio è lo storico più coetaneo alla clades Variana ma anche quello più condizionato; una critica velata nei confronti di Augusto sarebbe stata inconcepibile, non può che assumere una posizione sostanzialmente positiva nei confronti del principato. I

Negli ultimi dieci anni la clades Variana è tornata al centro dell’attenzione

scientifica, da quando gli archeologi sono riusciti a identificare il probabile luogo dell’evento,

sulla base del ritrovamento di armi, monete e scheletri di animali. Si tratta della zona di

Kalkriese, nei pressi di Osnabrück, dove nella primavera del 2002 è stato anche inaugurato un

Siamo dunque lontani dalla regione oggi nota col nome di selva di Teutoburgo.

In generale – sia detto qui per inciso – le ricerche archeologiche sul terreno relative

alla presenza romana in Germania hanno fatto grandi progressi: a partire dagli anni Ottanta,

con lo studio degli accampamenti legionari di Marktbreit e di Haltern, sono stati stabiliti i

punti nodali dalla strategia seguita da Roma per portare la Germania sotto il proprio dominio –

strategia per la quale non esiste nessuna fonte letteraria parallela.

Velleio non può essere considerato una fonte utile per le discusse questioni dello svolgimento e la localizzazione della battaglia, ma ci fornisce un’importante testimonianza di come i contemporanei avvertirono l’evento, dunque una precoce documentazione sulla ricezione che la disfatta ebbe a Roma.

 

(2,117,2-119):

Varus Quintilius nobili magis quam inlustri ortus familia, vir ingenio mitis,

moribus quietus, ut corpore ita animo immobilior, otio magis castrorum quam

bellicae adsuetus militiae, pecuniae vero quam non contemptor Syria, cui

praefuerat, declaravit, quam pauper divitem ingressus dives pauperem reliquit; is

cum exercitui qui erat in Germania praeesset, concepit a se homines qui nihil

praeter vocem membraque habent hominum, quique gladiis domari non poterant,

posse iure mulceri. quo proposito mediam ingressus Germaniam velut inter viros

pacis gaudentes dulcedine iurisdictionibus agendoque pro tribunali ordine

trahebat aestiva.

Quintilio Varo, nato da famiglia illustre più che nobile, era uomo di indole

mite, tranquillo di carattere, alquanto lento di fisico come di mente, avvezzo

più alla vita quieta nell’accampamento che all’esercizio della guerra; ma che

non disprezzasse il denaro, lo provò la Siria, che aveva governato, dove

entrò povero e se ne uscì ricco, lasciando la regione povera da che era ricca.

Costui, essendo a capo dell’esercito che era in Germania, pensò che fossero

uomini quegli esseri che non avevano niente d’umano, tranne la voce ed il

corpo, e che potessero essere mitigati col diritto quelli che non potevano

essere domati con la spada. Con queste intenzioni, entrato nel cuore della

Germania, come se stesse tra uomini che godevano i frutti della pace,

trascorreva la campagna estiva amministrando la giustizia civile e

pronunciando regolarmente sentenze dalla sua tribuna.

La scena si apre con una caratterizzazione: il nome di Varo, posto all’inizio, in

posizione di rilievo, richiama l’attenzione sull’inizio di una nuova sezione del racconto. A

partire dall’enumerazione dei tratti essenziali del personaggio e più ancora nel prosieguo

emerge come Varo non solo fosse del tutto inadeguato ai compiti che lo attendevano in

Germania, ma anche che egli non riconobbe nemmeno lontanamente il pericolo che

incombeva su di lui.

La debolezza dei Romani venne inoltre sfruttata dai Germani:

at illi, quod nisi expertus vix credat, in summa feritate versutissimi natumque

mendacio genus, simulantes fictas litium series et nunc provocantes alter alterum

in iurgia, nunc agentes gratias quod ea Romana iustitia finiret feritasque sua

novitate incognitae disciplinae mitesceret et solita armis decerni iure

terminarentur, in summam socordiam perduxere Quintilium, usque eo ut se

praetorem urbanum in foro ius dicere, non in mediis Germaniae finibus exercitui

praeesse crederet.

Eppure quelli – cosa che si stenta a credere, senza averne fatta personale

esperienza – pur nell’estrema barbarie astutissimi, stirpe nata per la

menzogna, inscenando liti fittizie in serie, ed ora provocandosi

reciprocamente in contese, ora ringraziando perché la giustizia romana

metteva fine alle controversie e la loro natura selvaggia si addolciva grazie

ad una disciplina nuova e sconosciuta, e risolvevano con la legge le

questioni che essi erano soliti dirimere con le armi, ridussero Quintilio ad un

grado estremo di indolenza, tanto che egli credeva di amministrare la

giustizia nel foro come pretore urbano, non di avere il comando di un

esercito nel cuore del territorio della Germania.

Segue un secondo ritratto, quello dell’avversario di Varo, Arminio, che deve molto al

ritratto di Vercingetorige nel VII libro del Bellum Gallicum di Cesare. Tuttavia questo profilo

non è solo fine a sé stesso ma riprende in modo complementare quello di Varo, mettendo in

luce le debolezze di quest’ultimo, attraverso un deliberato paragone. Si noti inoltre che

Arminio viene messo in connessione con la comunità dei Germani e, per così dire, con i tratti

caratteristici di quel popolo, mentre Varo rimane isolato. Sui Romani nel loro complesso, per

quanto possibile, non deve cadere alcuna ombra.

Tum iuvenis genere nobilis, manu fortis, sensu celer, ultra barbarum promptus

ingenio, nomine Arminius, Segimeri principis gentis eius filius, ardorem animi

uultu oculisque praeferens, adsiduus militiae nostrae prioris comes, <cum> iure

etiam civitatis Rom<an>ae ius equestris consecutus gradus, segnitia ducis in

occasionem sceleris usus est, haud imprudenter suspicatus neminem celerius

opprimi quam qui nihil timeret, et frequentissimum initium esse calamitatis

securitatem. primo igitur paucos, mox plures in societatem consilii recepit;

opprimi posse Romanos et dicit et persuadet, decretis facta iungit, tempus

insidiarum constituit. id Varo per virum eius gentis fidelem clarique nominis,

Segesten, indicatur. postulabat etiam — fata consiliis omnemque animi eius aciem

praestrinxerant; quippe ita se res habet ut plerumque cui fortunam mutaturus

<est> deus consilia corrumpat, efficiatque, quod miserrimum est, ut quod accidit

id etiam merito accidisse videatur et casus in culpam transeat. negat itaque se

credere spe<cie>mque in se benevolentiae ex merito aestimare profitetur. nec

diutius post primum indicem secundo relictus locus.

Fu allora che un giovane di famiglia nobile, di nome Arminio – figlio di

Sigimero, capo di questo popolo, forte di mano, pronto di pensiero,

d’intelligenza superiore a quella di un barbaro, che mostrava nello sguardo e

nel volto l’ardore del suo animo, assiduo compagno delle nostre armi nella

precedente campagna, gratificato della cittadinanza romana, conseguendo

anche i diritti dell’ordine equestre – approfittò dell’ignavia del generale per

attuare il suo misfatto, giacché non senza saggezza aveva considerato che

nessuno può essere ucciso più presto di chi non ha nessun timore e che la

sicurezza molto spesso è il principio della disgrazia. Dunque fece partecipi

del suo piano prima pochi dei suoi, poi un numero maggiore. Diceva – e li

convinse – che i Romani potevano essere schiacciati; fece seguire alla

decisione l’azione, stabilì il momento per l’agguato. II fatto fu riferito a

Varo da un uomo fidato, originario di quella gente dal nome illustre,

Segeste. Chiedeva a Varo di *<far prigionieri i cospiratori ma ormai > il

fato *<ostacolava> le sue decisioni <poiché> aveva offuscato

completamente le sue capacità intellettive. Così, infatti, vanno le cose che

per lo più la divinità, quando decide di cambiare la fortuna di qualcuno, gli

sconvolge anche la mente e fa in modo che – ed è questa la cosa più triste –

quanto accade gli sembra essere accaduto anche giustamente e la disgrazia

si tramuta in colpa. Varo si rifiuta di credergli e dichiara di sperare (da parte

dei Germani) in una buona disposizione nei suoi riguardi, adeguata ai

meriti. Non rimase ancora tempo, dopo il primo avvertimento, per riceverne

un altro.

Solo ora, dopo questo passo, reso più duro dalle considerazioni di ordine generale, Velleio

giunge alla vera e propria descrizione della battaglia, che viene proposto in forma assai

compendiosa. L’opera più completa a cui si fa cenno nel passo – i volumina iusta – non fu mai

scritta, o almeno non ci è conservata e gli studiosi dubitano che si tratti solo di un topos

Ordinem atrocissimae calamitatis, qua nulla post Crassi in Parthis damnum in

externis gentibus gravior Romanis fuit, iustis voluminibus ut alii ita nos conabimur

exponere: nunc summa deflenda est. exercitus omnium fortissimus, disciplina,

manu experientiaque bellorum inter Romanos milites princeps, marcore ducis,

perfidia hostis, iniquitate Fortunae circumuentus, cum ne pugnandi quidem

egrediendiue occasio iis, in quantum uoluerant, data esset immunis, castigatis

etiam quibusdam graui poena quia Romanis et armis et animis usi fuissent,

inclusus siluis paludibus insidiis ab eo hoste ad internecionem more pecudum

trucidatus est quem ita semper tractaverat ut vitam aut mortem eius nunc ira nunc

venia temperaret. duci plus ad moriendum quam ad pugnandum animi fuit; quippe

paterni avitique exempli successor se ipse transfixit. at e praefectis castrorum

duobus quam clarum exemplum L. Eggius, tam turpe Ceionius prodidit, qui, cum

longe maximam partem absumpsisset acies, auctor deditionis supplicio quam

proelio mori maluit. at Vala Numonius, legatus Vari, cetera quietus ac probus, diri

auctor exempli, spoliatum equite peditem relinquens fuga cum alis Rhenum petere

ingressus est; quod factum eius Fortuna ulta est; non enim desertis superfuit sed

desertor occidit. Vari corpus semiustum hostilis laceraverat feritas; caput eius

abscisum latumque ad Marboduum et ab eo missum ad Caesarem gentilicii tamen

tumuli sepultura honoratum est.

Anch’io, come altri scrittori, cercherò di esporre in un’opera di maggior

respiro le circostanze dettagliate di quest’orribile disgrazia che causò ai

Romani la perdita più grave in terra straniera, dopo quella di Crasso presso i

Parti: ora devo accontentarmi di deplorarla sommariamente. L’esercito più

forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed

esperienza di guerra, si trovò intrappolato, vittima dell’indolenza del suo

generale, della perfidia del nemico, dell’iniquità della sorte e, senza che

fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di

combattere liberamente, com’essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono

anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi ed al coraggio, da

veri Romani, chiuso da un’imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo

sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto

da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà.

Il generale mostrò nella morte maggiore coraggio di quanto ne avesse mostrato

nel combattere: erede, infatti, dell’esempio del padre e del nonno si trafisse

con la sua stessa spada, ma dei due prefetti del campo,

Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di

Ceionio il quale, quando la battaglia aveva già distrutto la maggior parte dei suoi,

propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in battaglia.

Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo ed onesto,

fu autore di uno scellerato esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati

del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno.

La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto. Non sopravvisse, infatti, a quelli che

aveva tradito, e morì da traditore.

La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi.

La sua testa tagliata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe

tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia.

Questo paragrafo mostra con la massima chiarezza cosa conti per Velleio. I Germani

vengono definiti con tutti gli espedienti derivati dalla topica sui barbari, rafforzando

l’immagine con il ricorso ad elementi del dramma antico, in particolare alle Baccanti di

Euripide. Il fatto più sorprendente è che ai Germani si imputa, oltre che una natura crudele e

selvaggia, anche una predisposizione alla menzogna che sarebbe addirittura genetica:

un’accusa che va in direzione diametralmente opposta alle affermazioni di Tacito nella

Germania, opera che a Nord delle Alpi si leggeva tanto volentieri. Varo è quasi sotto ogni

aspetto l’opposto di Tiberio, di cui Velleio loda espressamente l’accortezza e l’abilità in

Egli è indolente fisicamente, si lascia confondere dai Germani nelle questioni amministrative, come se si trovasse in una situazione di pace diffusa (gli manca dunque la virtù della vigilantia) ed anche come generale la situazione si rivela superiore alle sue forze.

Solo il suicidio finale gli può restituire un pò d’onore; ma anche questo è tipico di Velleio: è in questo modo che egli conferisce una riabilitazione postuma ai romani di cui dà un ritratto del tutto negativo. Varo non è dunque un’eccezione.

Velleio peraltro tace il fatto che Varo, durante la sua carriera, era entrato in stretto

contatto con Tiberio: nel 13 a.C. era stato suo collega nel consolato ed era anche lui genero di

Agrippa (come lo era anche Tiberio attraverso il suo primo matrimonio con la figlia di

Agrippa, Vipsania), come si è potuto appurare recentemente grazie a un ritrovamento

papiraceo. Inoltre si può ipotizzare che Varo il completo inetto descritto da Velleio: in tal

caso Augusto avrebbe commesso un grave errore a mandarlo proprio in Germania, dove la

situazione era tutt’altro che pacificata. Secondo la descrizione di Velleio, Augusto anche in

questo frangente non avrebbe trovato una soluzione ottimale nella scelta dei suoi

collaboratori, e dunque anche sotto questo aspetto Tiberio gli sarebbe superiore.

Si è ipotizzato che il silenzio sui rapporti di Varo e sui lati positivi della sua figura e

la caratterizzazione negativa che ne emerge dalla Storia romana di Velleio derivino, oltre che

dalla fondamentale preferenza dell’autore per gli homines novi rispetto a quelli dell’antica

nobiltà (tesi di Italo Lana), dal fatto che i discendenti di Varo, verso la metà degli anni Venti

del I secolo dopo Cristo, durante il principato di Tiberio, sarebbero caduti in disgrazia.

Certamente questo fatto cadeva a proposito per Velleio, ma il motivo più profondo sembra

risiedere in considerazioni di strategia narrativa. Per far risaltare al massimo le imprese di

Tiberio era necessario introdurre una figura antinómica, che potesse fungere da elemento di

contrasto, allo scopo di rafforzare la figura del princeps. Infatti, attraverso Varo, Velleio

poteva dimostrare che le grandiose vittorie di Tiberio non potevano in alcun modo essere

imputate alla debolezza dei nemici barbari, ma erano da ascrivere piuttosto alle eccezionali

doti del generale. Il fatto che il disastro di Varo non venga mascherato, ma anzi sottolineato in

tutti i suoi aspetti più oscuri, è dunque parte del calcolo narrativo di Velleio. Inoltre la

reputazione dei generali romani sconfitti era comunque pessima: salvare l’onore di Varo

sarebbe stata dunque impresa comunque difficile.

Le spoglie di Varo dunque, come scrive Velleio, furono restituite ai suoi e venne data loro regolare sepoltura. Non fu un caso isolato, infatti vi è un testo parallelo, che tratta di

una sorte simile: si tratta della lapide sepolcrale di Celio nel Rheinisches Landesmuseum di

Bonn (e di cui potete vedere un calco in questo stesso Dipartimento, nell’aula intitolata

appunto al legionario romano).

M(arco) CAELIO T(iti) F(ilio) LEM(onia) BON(onia) (I) O(rdini) LEG(ionis)

XIIX ANN(orum) LIII CECIDIT BELLO VARIANO OSSA INFERRE LICEBIT

P(ublius) CAELIUS T(iti) F(ilius) LEM(onia) FRATER FECIT

E così si chiude ora il cerchio. Non c’è bisogno che io mi intrattenga più diffusamente a

spiegare che questo Celio veniva da Bologna ed è evidente che egli trovò nei boschi della

Germania una morte che non si aspettava. Già questi semplici fatti rendono questa lapide,

testimone di una grave sconfitta romana, un documento notevole. Ma Velleio ci fornisce la

trama di fondo dell’iscrizione, illustrando, dal punto di vista dei romani contemporanei, la

catastrofe in tutte le sue proporzioni e indicandone la responsabilità. Per Velleio è chiaro chi è

l’unico colpevole: Varo; ma anche il redattore dell’iscrizione di Celio condivide questa

prospettiva giacché la iunctura bellum Varianum è singolare: è stata una guerra che era affare

del solo Varo a causare la morte dell’ufficiale romano.

Facciamo dunque un bilancio: Velleio non è solo un cronista che scrive in modo

estremamente sintetico la storia romana, come lo si considera generalmente. Egli sa anche

sviluppare questa storia all’interno di uno spazio letterario, facendone emergere un universo

concettuale. Chi dunque vede in Velleio unicamente una miniera dalla quale ricavare fatti

storici e lo usa per completare le note a pié di pagina finisce per commettere uno dei quegli

errori che talvolta ricadono su chi li commette e si pagano al prezzo di un’errata valutazione

Pensieri

Gli occhi dal colore nocciola

cercavano il mio sguardo,

confuso e solitario in quel viaggio

ormai al traguardo.

Quante volte nella vita ci siamo incontrati,

di sfuggita e mai abbastanza

ma ci eravamo sempre ritrovati

grazie all’erma intesa.

Ora non ci sei più,

almeno nel bisogno sempre immantinente

ma il colore dei tuoi occhi

resterà impresso nella mia mente.

Così mi mancherà la tua stretta,

la mano che mi aveva accompagnato

e soccorso nel percorso di prima vita

e quante volte rassicurato

come solo un padre può fare per un figlio.

La voce di mamma

sempre premurosa

riecheggia nei miei ricordi

e nel sogno si posa

 

 

  • Si, lo ammetto sono fiero e vanitoso del mio sorriso, tutti lo invidiano e molti si lasciano trascinare parchè è sincero, radioso e sonoro!
    il blu profondo del mare, tutte le tonalità fino all’indaco!
  • Mi piace settembre, la fine dell’estate quando si raccolgono le ultime messe, stagione dove si tirano le somme e si chiude un ciclo; poi seguono i colori stupendi e stanchi delle foglie di autunno.
  • Perché tutto finisce in questo mondo per rivivere di nuovo dopo una pausa di morte.

 

Ad Anna

Mi disarmi completamente e mi esasperi sempre, e a quel sorriso che illumina il presente,

vacillo e cado come faccio a resisterti?

Innanzi al costruito disincanto di donna vissuta, il tuo credo incrollabile verso di me,

Ogni resistenza è inutile, sei entrata nella mia vita determinata nella volontà ed insicura nella ragione, violenza di un uragano hai sconvolto le mie certezze, hai rasserenato le mie insicurezze, tutta la mia armatura hai arrugginito così che cadde miseramente a terra!.

Ora sono come un bambino completamente ignudo, come una tavola ammannata che hai spazzato via, eliminando la mia solitudine, per riempire ogni mio vuoto, ogni mio andito d’anima, spaccando il mio cuore per sempre.

Resti gracilissima creatura che si affida completamente a me, senza remore, senza paure, completamente abbandonata come il neonato tranquillo nelle braccia amorevoli e fascianti, senza parole ma solo intese.

Hai delle certezze che non possono essere sconfessate perché sei pura come la verità!

Io mi arrendo, fai quello che vuoi di me, sono nelle tue mani….incosciente come mai, indifeso e tremante più di prima, pieno di bisogni, ma sempre pieno di voglia di te!