Battaglia della Foresta di Teutoburgo
[[Guerre romano-germaniche]]
data: 9 – 11 settembre anno 9 d.c.
Ad urbe condita 762 della fondazione di Roma
Decisiva vittoria dei Germani, fine dell’espansione romana oltre il Reno
Impero romano |
comandante[[Publio Quintilio Varo]] |
Effettivi 3 legioni romane, 3 ali e 6 coorti ausiliarie, probabilmente 24.000 uomini circa |
Perdite circa 23.000 uomini |
|Tribù germaniche |
Comandante Arminio |
Effettivi sconosciuto, probabilmente 18.000Cheruschi, Catti e Marsi |
|perdite=sconosciute, forse 7.000 |
La ”’battaglia della Foresta di Teutoburgo”’ si svolse nel 9 d.C. tra l’esercito romano guidato da Publio Quintilio Varo e una coalizione di tribù germaniche comandate da Arminio, capo dei Cherusci.
Fu una delle più gravi sconfitte subite dai romani: tre intere legioni: la XVII, la XVIII e la XIX furono annientate. La clades variana diede inizio ad una guerra durata sette anni, più che conquista per rappresaglia, in quanto alla fine delle campagne i romani rinunciarono a ulteriori tentativi di conquista della Germania.
Il Reno si consolidò così come definitivo Limes ovvero confine nord-orientale dell’Impero romano per i successivi 400 anni.
==Introduzione==
Dopo che Tiberio, allora figlio adottivo dell’imperatore Augusto, aveva domato gli ultimi focolai di una rivolta degli inizi del I secolo, la Germania appariva ai romani come una vera e propria provincia.
A Roma si pensava che ormai fosse arrivato il momento di introdurre nella regione il diritto e le istituzione romane. L’imperatore Augusto decise così di affidare ad un burocrate, più che ad un generale, il governo della nuova provincia. Scelse, dunque, il governatore della Syria (provincia romana), ”’Publio Quintilio Varo”’ ( Cremona 47-46 a.C. – 9 d.C.). Egli era soprattutto un personaggio abbiente (eques?) che aveva percorso il solito “excursus honorario” dei politici romani. Fu Console nel 13 a.C., proconsole d’Africa (7 a.C.-6 a.C.) e poi legato in Siria. Qui stroncò con risolutezza la ribellione ebraica che seguì la morte di Erode I il Grande([[4 a.C.]]).
La sua carriera fu facilitata dal legame personale con Augusto. Varo, durante la sua carriera, era entrato in stretto contatto con Tiberio: nel 13 a.C. era stato suo collega nel consolato ed era anche lui genero di Agrippa (come lo era anche Tiberio attraverso il suo primo matrimonio con la figlia di
Agrippa, Vipsania), come si è potuto appurare recentemente grazie a un ritrovamento papiraceo.
Il Princeps riteneva che un personaggio noto per altri pregi ma non certamente per l’abilità bellica, potesse far cambiare le usanze secolari dei germani; i quali non avevano apprezzato i modi rudi dei militari romani.
Varo nel 7 d.C. ricevette l’incarico di amministrare i territori della Germania ma ignorò le indicazioni dell’Imperatore. Egli, pare che soleva rivolgersi ai Germani come a degli schiavi, convinto che essi si fossero ormai arresi alla volontà romana o forse la sua politica eccessivamente avida e persecutoria nei confronti delle popolazioni locali, come spesso accadeva nei governatori che vedano l’incarico come una fonte di guadagno e di finanziamento per un ulteriore carriera politica, Velleio dichiara che era povero quando fu nominato governatore della Syria e ne uscì ricchissimo. Tale avidità provocò malumore e la rivolta capeggiata da Arminio, ex ufficiale germanico dell’armata romana. Egli è indolente fisicamente, si lascia confondere dai Germani nelle questioni amministrative, come se si trovasse in una situazione di pace diffusa, gli manca dunque la virtù della vigilantia ed anche come generale la situazione si rivela superiore alle sue forze.
Questa era la situazione prima della disfatta che annientò le tre legioni che erano affidate al comando di Publio Quintilio Varo.
Era settembre e Varo, finita la stagione di guerra (che per i romani iniziava a marzo e finiva ad ottobre), già si muoveva verso i campi invernali presso il Reno. Al comando della XVII, XVIII e XIX Legioni, reparti ausiliari e numerosi civili, si spinse verso sud ovest, affidandosi alle indicazioni degli indigeni poiché non conosceva il luogo.
Quello che Varo non sapeva è che le popolazioni locali, guidate da Arminio, principe dei Cherusci, avevano organizzato un’imboscata. Il percorso sul quale furono dirette le legioni romane non era la via che avrebbero dovuto prendere per dirigersi velocemente nei campi invernali.
Sono state formulate diverse ipotesi sul perché i Romani si siano diretti a nord ovest prima di attraversare la Porta Vestfalica, per raggiungere presidi e percorrere strade più sicure.
L’ipotesi più plausibile è che Varo fosse stato informato di una rivolta scoppiata nei pressi del massiccio calcareo di Kalkriese e che, quindi, si fosse diretto lì velocemente per contrastarla prima che potesse diffondersi.
La decisione di Varo di attaccare subito quello che ritenne un principio di rivolta non era tuttavia insensata, in quanto un mancato intervento e il ritiro nei campi invernali sarebbe stato percepito da tutte le tribù come un fattore di debolezza, spingendo anche gli indecisi ad unirsi alla ribellione. Varo fece quello che ci si aspettava da ogni comandante romano in caso di disordini e che, per altro, aveva fatto anche quando era governatore della Siria per stroncare una rivolta giudaica, scegliendo di intervenire subito, anche con poche truppe, male rifornite e organizzate.
==La battaglia==
===Primo giorno===
Il 9 settembre i Romani subirono i primi attacchi che riguardarono solo l’avanguardia e furono di piccola entità. Probabilmente Varo non dette troppa importanza a queste avvisaglie ritenendole scaramucce. Le tribù in rivolta sotto gli ordini di Arminio erano diverse, Cherusci, Bructeri o Bructi, Catti, Marsi ecc., ma Varo non sapeva né contro chi stesse marciando né che il capo nemico fosse al suo fianco durante la marcia: Arminio, infatti, era ritenuto dai Romani un importante alleato e per questo gli era stato fatto dono della cittadinanza romana e del titolo di “Cavaliere”.
===Secondo giorno===
Il secondo giorno fu peggiore del primo perché le perdite subite furono maggiori. Gli uomini di [[Arminio]] conoscevano bene il territorio e in piccoli gruppi armati alla leggera, si lanciavano in rapide incursioni fuggendo prima che la macchina militare romana potesse disporsi in formazione da combattimento, impedita com’era dalla mancanza di spazio in cui manovrare. Infatti, non essendoci strade, i Romani dovettero attraversare una fitta foresta tra un massiccio calcareo e una palude.
===Terzo giorno===
I Romani arrivarono nel luogo pensato e di conseguenza predisposto da [[Arminio]] per l’attacco principale. Era il punto in cui la grande palude si avvicinava di più alla montagna calcarea e dove quindi il passo che portava al varco era ristrettissimo (120-80 metri). Qui i [[Germani]] avevano innalzato un terrapieno lungo oltre 500 metri e largo 4-5 metri parallelo alla conca lungo il bordo del bosco, vera e propria muraglia senza fossa antistante con strette aperture per l’uscita e l’entrata dei loro combattenti. Da qui potevano attaccare il fianco sinistro delle truppe romane per tutta la loro lunghezza. Nonostante l’idea di [[Varo]] di dividere il proprio esercito in piccoli gruppi armati con molti “pila” le perdite furono pesantissime e si scatenò il caos nello schieramento romano.
La cavalleria, guidata da C. Numonio Vala invece di proteggere il seguito delle truppe si staccò dal nucleo e cercò la salvezza fuggendo verso nord-ovest attraverso la palude ma anch’essa venne coinvolta in ulteriori combattimenti (per circa 4 chilometri secondo i recenti scavi) ed è probabile che anche questi soldati siano stati eliminati. A questo punto quasi tutti i soldati romani abbandonarono gli scontri preferendo uccidersi o fuggire (per venire catturati o uccisi dai Germani), Varo stesso, ferito nel combattimento morì o si dette la morte con la propria spada.
Alla fine a resistere furono solo un piccolo gruppo di veterani che continuarono a combattere dopo aver costruito un campo di fortuna su di una altura; nella serata però anche quest’ultima fiaccola di resistenza venne eliminata dai Germani che assalendo il campo da tutte le direzioni, lo presero facilmente.
Gran parte dei superstiti vennero sacrificati alle divinità germaniche e i restanti vennero liberati, o scambiati con prigionieri germanici o riscattati se è vero che durante le successive spedizioni del 16-17 (sei anni dopo la disfatta), Germanico si fece ricondurre sul campo di Kalkriese avvalendosi proprio dell’aiuto dei veterani della battaglia, gli unici che ne potevano indicare il luogo.
==Conclusione==
La ”clades variana” fu la più grande disfatta subita dall'[[Impero Romano]] (ma non in assoluto la più grande della storia romana) e mise fine ai propositi augustei di espansione verso il nord est dell’Europa. Dopo questa sfortunata battaglia Svetonio ci racconta nel suo “Vita dei Cesari” che Augusto non si fosse tagliato per mesi barba e capelli in segno di lutto e si lamentasse con la celebre frase: “Varo rendimi le mie legioni” (”Vare legiones redde”!).
Certamente l’imperatore era amareggiato della disfatta e soprattutto della perdita di 30.000 soldati. Temendo un attacco dei Germani, infatti, cercò di ricostituire velocemente le tre legioni perse, addirittura, si dice, arruolando liberti, criminali e persino persone che non avevano la cittadinanza romana.
Augusto infine consigliò il suo successore di non intraprendere altre spedizioni fuori dai confini, ma Tiberio, una volta Imperatore, inviò Germanico a combattere in quelle zone forse anche per allontanare un personaggio scomodo come il figlio di Druso.
Sembra che Germanico abbia ritrovato una o due delle tre insegne delle legioni perse nella battaglia. La terza,invece, è sparita del tutto insieme al suo portatore, nella grande palude a nord del campo di battaglia.
L’aquilifer che la portava preferì morire portandosi dietro l’insegna piuttosto che lasciarla nelle mani dei Germani.
L’aquilifero era il soldato incaricato di portare in battaglia l’Aquila delle legioni romane, che tutti i soldati dovevano proteggere anche a costo della vita. Il vessillo, sormontato appunto da un’aquila, era quanto di più prezioso aveva la Legione e la sua perdita era considerata un’immane disgrazia. Sono numerosi i casi di aquiliferi che, gettandosi contro il nemico portando l’insegna senza abbandonarla, hanno trascinato con sé i compagni, capovolgendo una situazione critica: un esempio è dato dal primo sbarco di Cesare in Britannia, quando le sue truppe, intimorite dai nemici, arrivarono a terra per proteggere un aquilifero che era sbarcato avanzando verso i nemici.
Altre fonti addebitano il ritrovamento della terza insegna ad una successiva incursione dell’armata al tempo dell’Imperatore Claudio.
Estratto da “http://it.wikipedia.org/wiki/Aquilifer”
===Conseguenze===
La battaglia segna di fatto la fine dell’espansionismo romano in [[Germania]]: il ”lamento” di [[Augusto (imperatore romano)|Augusto]], di cui si parlava poc’anzi, può essere associato, infatti, non solo alla sconfitta militare, di per se grave, ma anche alla consapevolezza del vecchio imperatore di non poter stabilizzare i confini nord-orientali. L’espansione romana si arrestò, infatti, sulle rive del [[Reno]], mentre [[Augusto (imperatore romano)|Augusto]] avrebbe preferito le sponde dell'[[fiume Elba|Elba]], che, come confine, si mostrava strategicamente molto più sicuro. Soprattutto perché non avrebbe esposto l’impero ad un pericolo perenne di divisione tra Est e Ovest, soprattutto per la vicinanza degli avamposti barbari alla “porta” romana che collegava oriente e occidente: [[Aquileia]].
Quasi tutte le postazioni romane ad est del Reno, ad eccezione di Alisio, diventano indifendibili e sono abbandonate e si ritorna in pratica alle posizioni antecedenti l’offensiva del 12 a.C. Il Reno grazie alle 2 legioni di rinforzo [stanziate a Moguntiaco (Magonza)] portate a Castra Vetera dal legato Nonio Asprenate non viene attraversato dai Germani, i quali per sempre dall’influenza della civiltà romana.
– Augusto che a Roma grida “Varo rendimi le mie legioni” dapprima è in difficoltà a ripristinare la guarnigione del Reno, poi manda Tiberio con 8 legioni provenienti: 2 dalla Rezia, 2 dalla spagna, 2 dall’I’lirico e le 2 di Asprenate di stanza a Magonza e portate a Xanten (Castra Vetera). Roma non troverà più la possibilità di rinnovare il progetto di una linea di frontiera Elba-Danubio.
La colonizzazione della [[Germania]] avrebbe aperto scenari del tutto differenti per la storia di tutta la latinità. Infatti le popolazioni barbare che indebolirono negli ultimi secoli di vita dell’Impero l’esercito romano provenivano dalle regioni tra l’Elba ed il Reno. La possibilità di una loro civilizzazione, come era avvenuto per Galli, Bretoni e Iberi, avrebbe sicuramente aumentato la forza e la quantità del potere militare, attenuando le lotte intestine e l’impatto di popoli come gli Unni che rifornirono le schiere con quelli che un tempo erano “alleati di Roma” verso la quale invece nutrivano odio e brama di appropriarsi delle sue ricchezze.
Analizzando il corso degli eventi nella storia si può osservare che tutti gli Imperi tedeschi dagli Ottoni a Hitler si sono fondati sull’esaltazione dei valori propri della “germanicità” nati nelle tribù barbariche e maturati nel Medioevo che con la “latinizzazione” delle genti conquistate dall’espansione romana non sarebbero potuti esistere.
=bibliografia ==
==Fonti antiche==
La seguente è una lista di tutti i riferimenti alla battaglia presenti nei testi dell’antichità. Sebbene il resoconto fatto nella ”Storia Romana” sia il più dettagliato, il fatto che l’autore [[Dione Cassio]] fosse vissuto almeno due secoli dopo gli eventi e che avesse fornito dettagli cui nessun autore precedente aveva fatto menzione, rendono il suo resoconto sospetto dal punto di vista storico, che assume piuttosto gli aspetti di una rievocazione letteraria.
* [[Publio Ovidio Nasone|Ovidio]], ”[[Tristia]]”, versi poetici scritti nel [[10]] ed [[11]]
* [[Marco Manilio]], ”Astronomica”, poema scritto agli inizi del [[I secolo]]
* [[Strabone]], ”Geographia” (Libro 7, Sezione 1,4),storia di carattere geografico scitta probabilmente nel [[18]]
* [[Velleio Patercolo]], ”Storia Romana” (Libro 2, Capitoli 117-120), storia, scritta nel [[30]]
* [[Tacito]], ”[[Annales (Tacito)|Annali]]” (Libro 1), storia, scritta nel [[109]]
* [[Gaio Svetonio Tranquillo|Svetonio]], ”Vite dei dodici Cesari”, storia, scritta nel [[121]]
* [[Floro]], ”Epitome de T. Livio Bellorum omnium annorum DCC Libri duo” (Sezione 2,30), storia/panegirico scritto agli inizi del [[II secolo]]
* [[Dione Cassio]], ”Storia Romana” (Libro 56, Capitoli 18-24), storia, scritta nella prima metà del [[III secolo]]
==Fonti moderne==
*Peter Wells, “La battaglia che fermò l’impero romano: la disfatta di Q.Varo nella Selva di Teutoburgo”, il Saggiatore Collana Nuovi Saggi Pagine 256 € 17,00 – Milano 2004.
M.Bocchiola-M.Sartori “TEUTOBURGO 9 D.C.. La grande disfatta delle legioni di Augusto” Ermanno Alberelli editore, pagine 324, € 22,00
===Fonti storiche=====
* Tacito, (”Annali” II, 88): (aveva ricavato) presso gli storici ed i senatori contemporanei agli eventi che in Senato fu letta una lettera di Adgandestrio, capo dei Catti, con la quale prometteva la morte di Arminio se gli fosse stato inviato un veleno atto all’assassinio.
Gli fu risposto, invece, che il popolo romano si vendicava dei suoi nemici non con la frode o con trame occulte ma apertamente e con le armi.
Tacito continua (descrivendo che) Arminio, aspirando al regno mentre i romani si stavano ritirando a seguito della cacciata di Maroboduo (Marbod), ebbe a suo sfavore l’amore per la libertà del suo popolo e assalito con le armi mentre combatteva con esito incerto, cadde tradito dai suoi collaboratori. Indubbiamente fu il liberatore della Germania, uno che ingaggiò guerra non ad un popolo romano ai suoi inizi, come altri re e comandanti, ma ad un Impero nel suo massimo splendore. Ebbe fortuna alterna in battaglia ma non fu vinto in guerra. Visse trentasette anni e per dodici fu potente. Tuttora è cantato nelle saghe dei barbari, ignorato nelle storie dei greci che ammirano solo le proprie imprese, da noi romani non è celebrato ancora come si dovrebbe; Noi che mentre esaltiamo l’antichità non badiamo ai fatti recenti.
**Tacito (“Annali”, 60) addebita a Lucio Stertinio, inviato in missione da Germanico con una colonna armata alla leggera a disperdere i Brutteri, intenti a bruciare i loro paesi e, nel corso della strage e del saccheggio, trovò l’aquila della XIX diciannovesima legione. Lo stesso Tacito racconta che il ritrovamento avvenne nei pressi di Teutoburgo e ciò spinse Germanico a recarvisi per rendere onore ai caduti.
* (Annali di Tacito 61). Sorse allora in Cesare Germanico il desiderio di rendere gli estremi onori ai soldati e al loro comandante, tra la generale commiserazione dell’esercito lì presente al pensiero dei parenti, degli amici e ancora dei casi della guerra e del destino umano. (Igitur cupido Caesarem invadit solvendi suprema militibus ducique, permoto ad miserationem omni qui aderat exercitu ob propinquos, amicos, denique ob casus bellorum et sortem hominum). Mandato in avanscoperta Cecina a esplorare i recessi della foresta e a costruire ponti e dighe sugli acquitrini delle paludi e sui terreni insidiosi, avanzavano in quei luoghi mesti, deprimenti alla vista e al ricordo. Il primo campo di Varo denotava, per l’ampiezza del recinto e le dimensioni del quartier generale, il lavoro di tre legioni; poi, dal trinceramento semidistrutto, dalla fossa non profonda, si arguiva che là si erano attestati i resti ormai ridotti allo stremo. In mezzo alla pianura biancheggiavano le ossa, sparse o ammucchiate, a seconda della fuga o della resistenza opposta. Accanto, frammenti di armi e carcasse di cavalli e teschi confitti sui tronchi degli alberi, (medio campi albentia ossa, ut fugerant, ut restiterant, disiecta vel aggerata. adiacebant fragmina telorum equorumque artus, simul truncis arborum antefixa ora). Nei boschi vicini, are barbariche, sulle quali avevano sacrificato i tribuni e i centurioni di grado più elevato. I superstiti di quella disfatta, sfuggiti alla battaglia o alla prigionia, raccontavano che qui erano caduti i legati e là strappate via le aquile, e dove Varo avesse subito la prima ferita e dove il poveretto, di sua mano, avesse trovato la morte; da quale rialzo avesse parlato Arminio, quanti patiboli e quali fosse avessero preparato per i prigionieri e come, nella sua superbia, Arminio avesse schernito le insegne e le aquile.
* (Annali di tacito 62) Dunque sei anni dopo quella strage, c’era là un esercito romano a seppellire le ossa di tre legioni, senza che alcuno sapesse se ricopriva di terra i resti di un estraneo o di uno dei suoi, ma tutti li sentivano come congiunti, come consanguinei, e cresceva in loro, mesti e furenti a un tempo, la rabbia contro il nemico. La prima zolla del tumulo in costruzione la pose Cesare Germanico: un nobile gesto d’onore verso i morti e di partecipazione al dolore dei presenti. (primum extruendo tumulo caespitem Caesar posuit, gratissimo munere in defunctos et praesentibus doloris socius). Ciò non trovò l’approvazione di Tiberio, sia che interpretasse al peggio ogni atto di Germanico, sia nell’ipotesi che, davanti allo spettacolo di quel massacro e dei corpi insepolti, ne risentisse la combattività dell’esercito e crescesse la paura del nemico; inoltre riteneva che un comandante, nel suo ruolo di augure e rivestito delle più antiche cariche sacerdotali, non avrebbe dovuto officiare riti funebri.
Velleio Patercolo inizia così a raccontare la claves variana “aL’esercito più forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed esperienza di guerra, si trovò intrappolato, vittima: dell’indolenza del suo generale,
della perfidia del nemico,
dell’iniquità della sorte
e, senza che fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita….
==Curiosità==
* Dopo questa sfortunata battaglia Svetonio ci racconta nel suo “Vita dei Cesari” che Augusto non si taglio per mesi barba e capelli ed andava in giro per la casa sbattendo la testa al muro e dicendo (Vare legiones redde!). Inoltre sembra che Augusto temendo un invasione dei germani fece di tutto per riavere subito altre 3 legioni, si dice che arruolò liberti, criminali e persino persone che non avevano la cittadinanza romana. Augusto infine consiglio il suo successore di non intraprendere altre spedizioni fuori dai confini ma si sa che Tiberio, almeno nei primi anni, non rispettò questo consiglio e mandò Germanico.
* La claves variana fu percepita come un’onta per i romani e gli autori incolpano Varo per la sua negligenza, Arminio per la perfidia, l’ambiente selvaggio e le pessime condizioni atmosferiche; mai una parola sui guerrieri locali che sopraffecero le legioni di un impero. Augusto attribuì la sconfitta addirittura ad un’inadeguata cerimonia rituale, che impedì ai romani di guadagnarsi il favore degli dèi. L’imperatore non riusciva a credere che il suo esercito fosse stato schiacciato dai barbari del nord.
*Una volta che i romani si furono ritirati da vincitori, scoppiò la guerra tra Arminio e Marbod, l’altro potente capo germanico dell’epoca, monarca dei marcomanni (che erano stanziati nell’odierna Boemia, dopo essere stati battuti. Marbod aveva stretto una tregua con Augusto e sembra che non accettò l’alleanza con Arminio prima della claves di Varo. Arminio gli inviò la testa di Varo e questi la mandò ad Augusto che perse ogni speranza di trovare vivo il suo protetto. Nel 19 d.c. Arminio fu assassinato dai suoi capitani, che temevano il suo crescente potere
*Il fratello di Arminio, Ezio, militava nell’esercito romano e rimase, anche successivamente la battaglia di Teutoburgo, un leale e fedele ufficiale delle legioni.
*Sembra che Germanico, circa sei anno dopo la sconfitta, abbia ritrovato solo due delle tre insegne delle legioni perse nella battaglia, mentre pare che la terza sia sparita, insieme al suo portatore, nella grande palude a nord del campo di battaglia. Pare che l’aquilifer che la portava preferì morire trascinando dietro l’insegna piuttosto che lasciarla nelle mani dei Germani(vedi Tacito annali 60 e 61). Il ritrovamento della terza insegna, invece, sembra avvenuta molto tempo dopo dall’armata romana al tempo dell’Imperatore Claudio
* L’aquilifero era il soldato incaricato di portare in battaglia l’aquila delle legioni romane, che tutti i soldati dovevano proteggere anche a costo della vita. L’aquila era, infatti, quanto di più prezioso aveva la legione e la sua perdita era considerata un’immane disgrazia.
Sono numerosi i casi di aquiliferi che, gettandosi contro il nemico portando l’insegna, hanno trascinato con sé i compagni, capovolgendo una situazione critica: un esempio è dato dal primo sbarco di Cesare in Britannia, quando le sue truppe, intimorite dai nemici, arrivarono a terra per proteggere un aquilifero che era sbarcato avanzando verso i nemici.
*Il femminile di Arminio, ”Arminia”, ha dato il nome alla squadra [[Germania|tedesca]] dell'[[Arminia Bielefeld]].
*La storia di Arminio e delle sue vittorie potrebbero aver fornito la base per la figura [[mitologia|mitologica]] di [[Sigfrido]] dei [[Nibelunghi
Le spoglie di Varo dunque, come scrive Velleio, furono restituite ai suoi e venne data loro regolare sepoltura. Non fu un caso isolato, infatti, vi è un testo parallelo che tratta di
una sorte simile: si tratta della lapide sepolcrale di Celio nel Rheinisches Landesmuseum di
Bonn (e di cui potete vedere un calco in questo stesso Dipartimento, nell’aula intitolata
appunto al legionario romano).
M(arco) CAELIO T(iti) F(ilio) LEM(onia) BON(onia) (I) O(rdini) LEG(ionis)
XIIX ANN(orum) LIII CECIDIT BELLO VARIANO OSSA INFERRE LICEBIT
P(ublius) CAELIUS T(iti) F(ilius) LEM(onia) FRATER FECIT
Celio veniva da Bologna ed è evidente che egli trovò nei boschi della Germania una morte che non si aspettava. Già questi semplici fatti rendono questa lapide, testimone di una grave sconfitta romana, un documento notevole. Ma Velleio ci fornisce la trama di fondo dell’iscrizione, illustrando, dal punto di vista dei romani contemporanei, la catastrofe in tutte le sue proporzioni e indicandone la responsabilità. Per Velleio è chiaro chi è l’unico colpevole: Varo; ma anche il redattore dell’iscrizione di Celio condivide questa prospettiva giacché la iunctura bellum Varianumè singolare: è stata una guerra che era affare del solo Varo a causare la morte dell’ufficiale romano.
========La Germania============
** Le popolazioni germaniche avevano più volte, nel [[38 a.C.|38]] gli [[Ubii]], nel [[29 a.C.|29]] i [[Suebi]] e nel [[17 a.C.|17]] i [[Sigambri]], tentato di passare il [[Reno]]. Dopo la morte di [[Marco Vipsanio Agrippa|Agrippa]], il comando delle operazioni fu diviso tra i due figliastri dell’Imperatore: [[Tiberio Claudio Nerone|Tiberio]] e [[Druso maggiore|Druso]]. Toccò a quest’ultimo il gravoso compito di operare in Germania.
**Nel [[12 a.C.]] cominciò la prima campagna germanica, respingendo prima una nuova invasione di [[Usipeti]], [[Tencteri]] e [[Sigambri]], concludendosi con una spedizione navale nelle terra di [[Frisoni|Frisi]] e [[Cauci]].
**Nell’[[11 a.C.]] Druso operò più a sud, battendo prima le popolazioni limitrofe ai confini imperiali, come [[Usipeti]] e [[Sigambri]], che si trovavano di fronte a [[Xanten|Vetara]] (l’odierna Xanten), poi percorse il fiume [[Lippe]], costruendovi alcune fortezze tra il [[Reno]] ed il fiume [[Weser]] (tra cui la famosa Aliso), e battendo le popolazioni germaniche di [[Marsi]] e [[Cherusci]].
**Nel [[10 a.C.]] scese ancora più a sud, e dalla nuova fortezza legionaria di [[Magonza|Mogontiacum]] (l’odierna Magonza), combattè le popolazioni di [[Catti]], [[Tencteri]] e [[Mattiaci]].
**Nel [[9 a.C.]] costrinse alla resa prima i [[Marcomanni]] (che in seguito a questi avvenimenti decisero di migrare in [[Boemia]]), poi la potente tribù dei [[Catti]], infine i [[Cherusci]], compiendo una marcia fino a raggiungere il [[fiume Elba]], Druso, però, morì poco dopo a causa di una caduta da cavallo.
**Nei due anni successivi (8-7 a.C.), il fratello Tiberio, accorso al suo cappezzale dall'[[Illirico]], riuscì a consolidare, attraverso una serie di campagne militari ed azioni diplomatiche, l’occupazione romana fino al fiume [[Weser]].
**Nuove azioni furono intraprese in quest’area negli anni successivi (dal [[6 a.C.]] al [[3]] d.C., dopo che Tiberio si era ritirato in esilio volontario), da altri generali di Augusto come [[Lucio Domizio Enobarbo]] o [[Marco Vinicio]], ma senza ulteriori nuovi risultati.
**Fu necessario il ritorno di [[Tiberio Claudio Nerone|Tiberio]], il quale tra il [[4]] ed il [[6]] d.C. continuò l’opera lasciata in sospeso un decennio prima, ritenendo ormai maturi i tempi per mutare l’assetto dei nuovi territori germanici appena conquistati, in nuova provincia di Roma. Occupò, pertanto, in modo permanente, con nuove azioni militari, tutte le terre comprese tra i fiumi [[Reno]] ed Elba.
**L’ultimo atto necessario fu quello di occupare la [[Boemia]] dei [[Marcomanni]] di [[Maroboduo]], al fine di compeltare il progetto di annessione delle terre tra [[Reno]] ed Elba, ma una grande rivolta (vedi sopra) in [[Dalmazia]] e [[Pannonia]], fermò l’avanzata di Tiberio in [[Moravia (Repubblica Ceca)|Moravia]] (proveniente da [[Carnuntum]]) e del suo legato [[Lucio Senzio Saturnino]] lungo il fiume [[Meno]] (proveniente dal forte legionario di [[Markbreit]]), a pochi giorni dal “cuore del regno” di Maroboduo. La campagna, progettata come una “manovra a tenaglia”, costituiva un’operazione combinata degli eserciti di Germania (2-3 legioni), Rezia (2 legioni) ed Illirico (4 legioni), che Tiberio fu costretto a rimandare ([[6]] d.C.).
**Tutti i territori conquistati in questo ventennio furono compromessi quando nel 7 d.C. Augusto inviava in Germania [[Publio Quintilio Varo]], sprovvisto di doti diplomatiche e militari, oltreché ignaro delle genti e dei luoghi. Nel 9 d.C. un esercito di 20.000 uomini composto dalle legioni XVII, XVIII e XIX veniva massacrato nella battaglia della foresta di Teutoburgo da Arminio, cittadino romano di origini germaniche. Fortuna volle che Maroboduo non si alleasse ad Arminio, e che i Germani riuniti si fermassero dinanzi al Reno, dove erano rimaste solo 2 o 3 legioni a guardia dell’intera provincia di Gallia. Tutta la zona tra il Reno e l’Elba era andata definitivamente perduta e neppure le azioni intraprese da Tiberio negli anni [[11]] e [[12]] d.C., poterono ripristinare quanto era stato così faticosamente conquistato in 20 anni di campagne militari precedenti.
==Biografia==
”’Arminio”’ (anche ”’Hermann”’ ed ”’Armin”’, [[17 a.C.|17]]/[[16 a.C.]] – [[21|21 d.C.]]) fu un [[Re germanico|capo]] della [[tribù]] [[germani]]ca dei [[cherusci]] che sconfisse le [[legione romana|legioni romane]] di [[Varo]] nella [[battaglia di Teutoburgo]]. In seguito venne sconfitto da [[Giulio Cesario Claudiano Germanico]]<ref>[[Tacito]], ”[[Annali (Tacito)|Annali]]” II, 22; [[Svetonio]], ”[[Vite dei dodici Cesari]]”, ”Vita di Caligola” 1,4</ref>. Il [[nome]] di Arminio è una variante [[lingua latina|latinizzata]] di quello [[lingue germaniche|germanico]] ”[[Irmin]]”, che significa “”Grande”” (confronta [[Herminones]]). Il nome Hermann (cioè “”uomo dell'[[esercito]]”” o “”guerriero””) fu utilizzato nel mondo germanico come equivalente di Arminio al tempo della [[Riforma]] di [[Martin Lutero]], che voleva farne un simbolo della lotta dei popoli germanici contro [[Roma antica|Roma]].
Arminio, nato nel 17 o nel 16 a.C., era figlio del capo cherusco [[Segimero]]. Servì nell'[[esercito romano]]: nelle [[fonte testuale|fonti]] [[storiografia latina|storiografiche]] [[lingua latina|latine]] è presentato come un luogotentente che collaborò alle operazioni militari dei romani in [[Pannonia]], guidando un distaccamento di [[truppe ausiliarie]] cherusche. Ottenuta anche la [[cittadinanza romana]], attorno al [[7]]/[[8]] d.C., Arminio tornò nella [[Germania]] settentrionale, dove i romani avevano conquistato i territori a [[ovest]] del [[fiume]] [[Reno]] e ora miravano a espandere il loro dominio a [[est]] dell'[[Fiume Elba|Elba]] sotto la guida del [[proconsole|governatore]] [[Publio Quintilio Varo]]. Arminio iniziò subito a complottare e a unire sotto la sua guida diverse [[tribù]] di [[germani]] per impedire ai romani di realizzare i loro progetti.
Nel [[9]], a capo di una coalizione formata da cherusci, [[marsi]], [[catti]] e [[brutteri]], il 25enne Arminio annientò l'[[esercito]] di Varo (circa 20.000 uomini) nella [[battaglia di Teutoburgo]] (forse nei pressi della [[collina]] di [[Kalkriese]], circa 20 [[chilometro|chilometri]] a [[nord]]-[[est]] di [[Osnabrück]]. Varo si suicidò e i romani non tentarono più di conquistare le terre al di là del Reno, che segnò per [[secolo|secoli]] il [[limes romano|confine]] tra l'[[Impero romano|Impero]] e i [[barbari]]. Dopo questa [[vittoria]], Arminio tentò inutilmente di creare un’alleanza permanente dei popoli germanici con cui far fronte all’inevitabile vendetta romana.
Nel [[13]] e nel [[15]], le forze romane , guidate da Germanico, fecero raid e devastarono i territori germanici, infliggendo sconfitte e umiliazioni ad Arminio e alle tribù.
Nel [[16]], Germanico sconfisse pesantemente Arminio nella [[battaglia del fiume Weser]] (combattuta a Idistaviso). Il capo cherusco venne battuto anche in seguito, nel corso di altre spedizioni punitive organizzate da Germanico. Durante queste operazioni, i romani recuperarono le insegne militari di due delle tre legioni che erano state massacrate a Teutoburgo. Quelle della terza furono recuperate in seguito, al tempo dell'[[imperatori romani|imperatore]] [[Claudio (imperatore romano)|Claudio]]<ref>[[Dione Cassio]], ”[[Storia romana (Dione Cassio)|Storia romana]]”, LX, 8.</ref>.
Infatti, come molti altri capi germanici del tempo, per un certo periodo Arminio aveva cercato di trovare una propria affermazione da un lato attraverso continui scontri con altre popolazioni germaniche, dall’altro alleandosi temporaneamente con l’esercito romano. Per esempio egli partecipò con i suoi uomini alla spedizione contro i Marcomanni in Pannonia, avviata da Tiberio nel 6 d.C., e pochi anni dopo divenne addirittura uno dei più stretti collaboratori di Varo. Come spesso accadeva, però, le alleanze tra esercito romano e contingenti germanici potevano rompersi improvvisamente per le ragioni più varie. Forse Arminio, pensando di trarre direttamente un vantaggio personale sconfiggendo i Marcomanni, decise di «giocare in proprio» e sconfisse il suo ex-grande alleato, Varo, approfittando di una sollevazione di truppe scontente per il mancato pagamento del «soldo». Ma, al di là delle effettive ragioni che spinsero Arminio ad abbandonare Varo, è importante comprendere come già dal I secolo d.C. nelle aree di frontiera i rapporti tra Germani e Romani erano caratterizzati sia da una endemica conflittualità, sia da continue alleanze che portarono a una consistente presenza di guerrieri germanici all’interno dell’esercito romano. Non deve stupire, pertanto, se un contingente romano che molti anni dopo la battaglia di Teutoburgo, nel 377, scese in battaglia contro i Visigoti, prima di avviare il combattimento innalzò un impressionante barritus, e cioè il tipico grido di guerra dei Germani.
Una delle forze principali dell’Impero romano fu, infatti,
=======cosa accade======
– Approvazione a Roma della lex Papia Poppaea proposta ai comitia tributa dai consoli M. Papio Mutilo e Caio Poppeo Sabino. Cerca di porre un rimedio stabilendo vantaggi e svantaggi patrimoniali per i celibes e gli orbi, e vantaggi ed onori ai coniugati che avessero figli. Impone:
1) obbligo del matrimonio agli uomini tra 25 e 60 anni e alle donne tra 25 e 50 anni;
2) in caso di divorzio la donna ha una vacatio di 18 mesi;
3) in caso di morte del marito la donna ha una vacatio di 2 anni.
– Augusto ha 71 anni e d’ora in poi non lascerà più la capitale.
– Il poeta Ovidio viene esiliato a Tomi sul Ponto Eusino, nel paese dei barbari Geti.
– Muore Aulo Licinio Nerva Silano, console del 7 d.C.
Velleio è lo storico più coetaneo alla clades Variana ma anche quello più condizionato; una critica velata nei confronti di Augusto sarebbe stata inconcepibile, non può che assumere una posizione sostanzialmente positiva nei confronti del principato. I
Negli ultimi dieci anni la clades Variana è tornata al centro dell’attenzione
scientifica, da quando gli archeologi sono riusciti a identificare il probabile luogo dell’evento,
sulla base del ritrovamento di armi, monete e scheletri di animali. Si tratta della zona di
Kalkriese, nei pressi di Osnabrück, dove nella primavera del 2002 è stato anche inaugurato un
Siamo dunque lontani dalla regione oggi nota col nome di selva di Teutoburgo.
In generale – sia detto qui per inciso – le ricerche archeologiche sul terreno relative
alla presenza romana in Germania hanno fatto grandi progressi: a partire dagli anni Ottanta,
con lo studio degli accampamenti legionari di Marktbreit e di Haltern, sono stati stabiliti i
punti nodali dalla strategia seguita da Roma per portare la Germania sotto il proprio dominio –
strategia per la quale non esiste nessuna fonte letteraria parallela.
Velleio non può essere considerato una fonte utile per le discusse questioni dello svolgimento e la localizzazione della battaglia, ma ci fornisce un’importante testimonianza di come i contemporanei avvertirono l’evento, dunque una precoce documentazione sulla ricezione che la disfatta ebbe a Roma.
(2,117,2-119):
Varus Quintilius nobili magis quam inlustri ortus familia, vir ingenio mitis,
moribus quietus, ut corpore ita animo immobilior, otio magis castrorum quam
bellicae adsuetus militiae, pecuniae vero quam non contemptor Syria, cui
praefuerat, declaravit, quam pauper divitem ingressus dives pauperem reliquit; is
cum exercitui qui erat in Germania praeesset, concepit a se homines qui nihil
praeter vocem membraque habent hominum, quique gladiis domari non poterant,
posse iure mulceri. quo proposito mediam ingressus Germaniam velut inter viros
pacis gaudentes dulcedine iurisdictionibus agendoque pro tribunali ordine
trahebat aestiva.
Quintilio Varo, nato da famiglia illustre più che nobile, era uomo di indole
mite, tranquillo di carattere, alquanto lento di fisico come di mente, avvezzo
più alla vita quieta nell’accampamento che all’esercizio della guerra; ma che
non disprezzasse il denaro, lo provò la Siria, che aveva governato, dove
entrò povero e se ne uscì ricco, lasciando la regione povera da che era ricca.
Costui, essendo a capo dell’esercito che era in Germania, pensò che fossero
uomini quegli esseri che non avevano niente d’umano, tranne la voce ed il
corpo, e che potessero essere mitigati col diritto quelli che non potevano
essere domati con la spada. Con queste intenzioni, entrato nel cuore della
Germania, come se stesse tra uomini che godevano i frutti della pace,
trascorreva la campagna estiva amministrando la giustizia civile e
pronunciando regolarmente sentenze dalla sua tribuna.
La scena si apre con una caratterizzazione: il nome di Varo, posto all’inizio, in
posizione di rilievo, richiama l’attenzione sull’inizio di una nuova sezione del racconto. A
partire dall’enumerazione dei tratti essenziali del personaggio e più ancora nel prosieguo
emerge come Varo non solo fosse del tutto inadeguato ai compiti che lo attendevano in
Germania, ma anche che egli non riconobbe nemmeno lontanamente il pericolo che
incombeva su di lui.
La debolezza dei Romani venne inoltre sfruttata dai Germani:
at illi, quod nisi expertus vix credat, in summa feritate versutissimi natumque
mendacio genus, simulantes fictas litium series et nunc provocantes alter alterum
in iurgia, nunc agentes gratias quod ea Romana iustitia finiret feritasque sua
novitate incognitae disciplinae mitesceret et solita armis decerni iure
terminarentur, in summam socordiam perduxere Quintilium, usque eo ut se
praetorem urbanum in foro ius dicere, non in mediis Germaniae finibus exercitui
praeesse crederet.
Eppure quelli – cosa che si stenta a credere, senza averne fatta personale
esperienza – pur nell’estrema barbarie astutissimi, stirpe nata per la
menzogna, inscenando liti fittizie in serie, ed ora provocandosi
reciprocamente in contese, ora ringraziando perché la giustizia romana
metteva fine alle controversie e la loro natura selvaggia si addolciva grazie
ad una disciplina nuova e sconosciuta, e risolvevano con la legge le
questioni che essi erano soliti dirimere con le armi, ridussero Quintilio ad un
grado estremo di indolenza, tanto che egli credeva di amministrare la
giustizia nel foro come pretore urbano, non di avere il comando di un
esercito nel cuore del territorio della Germania.
Segue un secondo ritratto, quello dell’avversario di Varo, Arminio, che deve molto al
ritratto di Vercingetorige nel VII libro del Bellum Gallicum di Cesare. Tuttavia questo profilo
non è solo fine a sé stesso ma riprende in modo complementare quello di Varo, mettendo in
luce le debolezze di quest’ultimo, attraverso un deliberato paragone. Si noti inoltre che
Arminio viene messo in connessione con la comunità dei Germani e, per così dire, con i tratti
caratteristici di quel popolo, mentre Varo rimane isolato. Sui Romani nel loro complesso, per
quanto possibile, non deve cadere alcuna ombra.
Tum iuvenis genere nobilis, manu fortis, sensu celer, ultra barbarum promptus
ingenio, nomine Arminius, Segimeri principis gentis eius filius, ardorem animi
uultu oculisque praeferens, adsiduus militiae nostrae prioris comes, <cum> iure
etiam civitatis Rom<an>ae ius equestris consecutus gradus, segnitia ducis in
occasionem sceleris usus est, haud imprudenter suspicatus neminem celerius
opprimi quam qui nihil timeret, et frequentissimum initium esse calamitatis
securitatem. primo igitur paucos, mox plures in societatem consilii recepit;
opprimi posse Romanos et dicit et persuadet, decretis facta iungit, tempus
insidiarum constituit. id Varo per virum eius gentis fidelem clarique nominis,
Segesten, indicatur. postulabat etiam — fata consiliis omnemque animi eius aciem
praestrinxerant; quippe ita se res habet ut plerumque cui fortunam mutaturus
<est> deus consilia corrumpat, efficiatque, quod miserrimum est, ut quod accidit
id etiam merito accidisse videatur et casus in culpam transeat. negat itaque se
credere spe<cie>mque in se benevolentiae ex merito aestimare profitetur. nec
diutius post primum indicem secundo relictus locus.
Fu allora che un giovane di famiglia nobile, di nome Arminio – figlio di
Sigimero, capo di questo popolo, forte di mano, pronto di pensiero,
d’intelligenza superiore a quella di un barbaro, che mostrava nello sguardo e
nel volto l’ardore del suo animo, assiduo compagno delle nostre armi nella
precedente campagna, gratificato della cittadinanza romana, conseguendo
anche i diritti dell’ordine equestre – approfittò dell’ignavia del generale per
attuare il suo misfatto, giacché non senza saggezza aveva considerato che
nessuno può essere ucciso più presto di chi non ha nessun timore e che la
sicurezza molto spesso è il principio della disgrazia. Dunque fece partecipi
del suo piano prima pochi dei suoi, poi un numero maggiore. Diceva – e li
convinse – che i Romani potevano essere schiacciati; fece seguire alla
decisione l’azione, stabilì il momento per l’agguato. II fatto fu riferito a
Varo da un uomo fidato, originario di quella gente dal nome illustre,
Segeste. Chiedeva a Varo di *<far prigionieri i cospiratori ma ormai > il
fato *<ostacolava> le sue decisioni <poiché> aveva offuscato
completamente le sue capacità intellettive. Così, infatti, vanno le cose che
per lo più la divinità, quando decide di cambiare la fortuna di qualcuno, gli
sconvolge anche la mente e fa in modo che – ed è questa la cosa più triste –
quanto accade gli sembra essere accaduto anche giustamente e la disgrazia
si tramuta in colpa. Varo si rifiuta di credergli e dichiara di sperare (da parte
dei Germani) in una buona disposizione nei suoi riguardi, adeguata ai
meriti. Non rimase ancora tempo, dopo il primo avvertimento, per riceverne
un altro.
Solo ora, dopo questo passo, reso più duro dalle considerazioni di ordine generale, Velleio
giunge alla vera e propria descrizione della battaglia, che viene proposto in forma assai
compendiosa. L’opera più completa a cui si fa cenno nel passo – i volumina iusta – non fu mai
scritta, o almeno non ci è conservata e gli studiosi dubitano che si tratti solo di un topos
Ordinem atrocissimae calamitatis, qua nulla post Crassi in Parthis damnum in
externis gentibus gravior Romanis fuit, iustis voluminibus ut alii ita nos conabimur
exponere: nunc summa deflenda est. exercitus omnium fortissimus, disciplina,
manu experientiaque bellorum inter Romanos milites princeps, marcore ducis,
perfidia hostis, iniquitate Fortunae circumuentus, cum ne pugnandi quidem
egrediendiue occasio iis, in quantum uoluerant, data esset immunis, castigatis
etiam quibusdam graui poena quia Romanis et armis et animis usi fuissent,
inclusus siluis paludibus insidiis ab eo hoste ad internecionem more pecudum
trucidatus est quem ita semper tractaverat ut vitam aut mortem eius nunc ira nunc
venia temperaret. duci plus ad moriendum quam ad pugnandum animi fuit; quippe
paterni avitique exempli successor se ipse transfixit. at e praefectis castrorum
duobus quam clarum exemplum L. Eggius, tam turpe Ceionius prodidit, qui, cum
longe maximam partem absumpsisset acies, auctor deditionis supplicio quam
proelio mori maluit. at Vala Numonius, legatus Vari, cetera quietus ac probus, diri
auctor exempli, spoliatum equite peditem relinquens fuga cum alis Rhenum petere
ingressus est; quod factum eius Fortuna ulta est; non enim desertis superfuit sed
desertor occidit. Vari corpus semiustum hostilis laceraverat feritas; caput eius
abscisum latumque ad Marboduum et ab eo missum ad Caesarem gentilicii tamen
tumuli sepultura honoratum est.
Anch’io, come altri scrittori, cercherò di esporre in un’opera di maggior
respiro le circostanze dettagliate di quest’orribile disgrazia che causò ai
Romani la perdita più grave in terra straniera, dopo quella di Crasso presso i
Parti: ora devo accontentarmi di deplorarla sommariamente. L’esercito più
forte di tutti, primo tra le truppe romane per disciplina, coraggio ed
esperienza di guerra, si trovò intrappolato, vittima dell’indolenza del suo
generale, della perfidia del nemico, dell’iniquità della sorte e, senza che
fosse stata data ai soldati nemmeno la possibilità di tentare una sortita e di
combattere liberamente, com’essi avrebbero voluto, poiché alcuni furono
anche puniti severamente per aver fatto ricorso alle armi ed al coraggio, da
veri Romani, chiuso da un’imboscata tra le selve e le paludi, fu ridotto allo
sterminio da quel nemico che aveva sempre sgozzato come bestie al punto
da regolare la sua vita e la sua morte ora con collera, ora con pietà.
Il generale mostrò nella morte maggiore coraggio di quanto ne avesse mostrato
nel combattere: erede, infatti, dell’esempio del padre e del nonno si trafisse
con la sua stessa spada, ma dei due prefetti del campo,
Lucio Eggio lasciò un esempio tanto illustre quanto fu vergognoso quello di
Ceionio il quale, quando la battaglia aveva già distrutto la maggior parte dei suoi,
propose di arrendersi e preferì morire tra le torture invece che in battaglia.
Quanto a Vala Numonio, luogotenente di Varo, per il resto uomo tranquillo ed onesto,
fu autore di uno scellerato esempio, abbandonando i cavalieri che erano stati privati
del cavallo e ridotti a piedi, cercò di fuggire con gli altri verso il Reno.
La fortuna, però, fece vendetta del suo gesto. Non sopravvisse, infatti, a quelli che
aveva tradito, e morì da traditore.
La furia selvaggia dei nemici bruciò a metà il corpo di Varo e lo fece a pezzi.
La sua testa tagliata e mandata a Maroboduo, che poi la inviò a Cesare, ebbe
tuttavia gli onori della sepoltura nella tomba di famiglia.
Questo paragrafo mostra con la massima chiarezza cosa conti per Velleio. I Germani
vengono definiti con tutti gli espedienti derivati dalla topica sui barbari, rafforzando
l’immagine con il ricorso ad elementi del dramma antico, in particolare alle Baccanti di
Euripide. Il fatto più sorprendente è che ai Germani si imputa, oltre che una natura crudele e
selvaggia, anche una predisposizione alla menzogna che sarebbe addirittura genetica:
un’accusa che va in direzione diametralmente opposta alle affermazioni di Tacito nella
Germania, opera che a Nord delle Alpi si leggeva tanto volentieri. Varo è quasi sotto ogni
aspetto l’opposto di Tiberio, di cui Velleio loda espressamente l’accortezza e l’abilità in
Egli è indolente fisicamente, si lascia confondere dai Germani nelle questioni amministrative, come se si trovasse in una situazione di pace diffusa (gli manca dunque la virtù della vigilantia) ed anche come generale la situazione si rivela superiore alle sue forze.
Solo il suicidio finale gli può restituire un pò d’onore; ma anche questo è tipico di Velleio: è in questo modo che egli conferisce una riabilitazione postuma ai romani di cui dà un ritratto del tutto negativo. Varo non è dunque un’eccezione.
Velleio peraltro tace il fatto che Varo, durante la sua carriera, era entrato in stretto
contatto con Tiberio: nel 13 a.C. era stato suo collega nel consolato ed era anche lui genero di
Agrippa (come lo era anche Tiberio attraverso il suo primo matrimonio con la figlia di
Agrippa, Vipsania), come si è potuto appurare recentemente grazie a un ritrovamento
papiraceo. Inoltre si può ipotizzare che Varo il completo inetto descritto da Velleio: in tal
caso Augusto avrebbe commesso un grave errore a mandarlo proprio in Germania, dove la
situazione era tutt’altro che pacificata. Secondo la descrizione di Velleio, Augusto anche in
questo frangente non avrebbe trovato una soluzione ottimale nella scelta dei suoi
collaboratori, e dunque anche sotto questo aspetto Tiberio gli sarebbe superiore.
Si è ipotizzato che il silenzio sui rapporti di Varo e sui lati positivi della sua figura e
la caratterizzazione negativa che ne emerge dalla Storia romana di Velleio derivino, oltre che
dalla fondamentale preferenza dell’autore per gli homines novi rispetto a quelli dell’antica
nobiltà (tesi di Italo Lana), dal fatto che i discendenti di Varo, verso la metà degli anni Venti
del I secolo dopo Cristo, durante il principato di Tiberio, sarebbero caduti in disgrazia.
Certamente questo fatto cadeva a proposito per Velleio, ma il motivo più profondo sembra
risiedere in considerazioni di strategia narrativa. Per far risaltare al massimo le imprese di
Tiberio era necessario introdurre una figura antinómica, che potesse fungere da elemento di
contrasto, allo scopo di rafforzare la figura del princeps. Infatti, attraverso Varo, Velleio
poteva dimostrare che le grandiose vittorie di Tiberio non potevano in alcun modo essere
imputate alla debolezza dei nemici barbari, ma erano da ascrivere piuttosto alle eccezionali
doti del generale. Il fatto che il disastro di Varo non venga mascherato, ma anzi sottolineato in
tutti i suoi aspetti più oscuri, è dunque parte del calcolo narrativo di Velleio. Inoltre la
reputazione dei generali romani sconfitti era comunque pessima: salvare l’onore di Varo
sarebbe stata dunque impresa comunque difficile.
Le spoglie di Varo dunque, come scrive Velleio, furono restituite ai suoi e venne data loro regolare sepoltura. Non fu un caso isolato, infatti vi è un testo parallelo, che tratta di
una sorte simile: si tratta della lapide sepolcrale di Celio nel Rheinisches Landesmuseum di
Bonn (e di cui potete vedere un calco in questo stesso Dipartimento, nell’aula intitolata
appunto al legionario romano).
M(arco) CAELIO T(iti) F(ilio) LEM(onia) BON(onia) (I) O(rdini) LEG(ionis)
XIIX ANN(orum) LIII CECIDIT BELLO VARIANO OSSA INFERRE LICEBIT
P(ublius) CAELIUS T(iti) F(ilius) LEM(onia) FRATER FECIT
E così si chiude ora il cerchio. Non c’è bisogno che io mi intrattenga più diffusamente a
spiegare che questo Celio veniva da Bologna ed è evidente che egli trovò nei boschi della
Germania una morte che non si aspettava. Già questi semplici fatti rendono questa lapide,
testimone di una grave sconfitta romana, un documento notevole. Ma Velleio ci fornisce la
trama di fondo dell’iscrizione, illustrando, dal punto di vista dei romani contemporanei, la
catastrofe in tutte le sue proporzioni e indicandone la responsabilità. Per Velleio è chiaro chi è
l’unico colpevole: Varo; ma anche il redattore dell’iscrizione di Celio condivide questa
prospettiva giacché la iunctura bellum Varianum è singolare: è stata una guerra che era affare
del solo Varo a causare la morte dell’ufficiale romano.
Facciamo dunque un bilancio: Velleio non è solo un cronista che scrive in modo
estremamente sintetico la storia romana, come lo si considera generalmente. Egli sa anche
sviluppare questa storia all’interno di uno spazio letterario, facendone emergere un universo
concettuale. Chi dunque vede in Velleio unicamente una miniera dalla quale ricavare fatti
storici e lo usa per completare le note a pié di pagina finisce per commettere uno dei quegli
errori che talvolta ricadono su chi li commette e si pagano al prezzo di un’errata valutazione